Questo è il mio primo post, perdonate la lunghezza. E’ difficile scrivere senza la “protezione” del ruolo di cronista che ti consente una certa impersonalità. Però il colloquio con voi lettori è fondamentale per il nostro lavoro, anche quando ci criticate. Metà del lavoro di giornalista lo facciamo noi che scriviamo, l’altra metà è compito vostro che ci leggete. E poi… poi ci sono tante cose che restano fuori dagli articoli che scriviamo e che, però, rimangono dentro di noi.
Ecco, forse il filo conduttore del mio blog potrebbe essere proprio questo: ciò che resta fuori dal taccuino. E che magari vorremmo comunicare a qualcuno. Per sfogarci, per alleggerirci un po’ il cuore. O semplicemente per cercare di raccontare chi sono davvero le persone di cui parliamo.
Mi vengono in mente tanti episodi che non sono finiti negli articoli, ma nei racconti serali destinati a mia moglie che ormai mi segue con uno sguardo tra il rassegnato e l’esausto.
Portofino, giugno 2009. Per La Stampa dovevo seguire Silvio Berlusconi che parlava al solito convegno di Confindustria. A metà del suo discorso se ne uscì con una dichiarazione che a me parve di una gravità inaudita: fece un appello – applauditissimo – agli industriali perché non facessero più pubblicità sui giornali “cattivi”. Insomma, si volevano condizionare i giornali attraverso la leva – potentissima e occulta – delle inserzioni. Questo riportai nell’articolo.
Poi seguii Berlusconi quando andò a cena a Portofino con Tronchetti Provera. Il Cavaliere comparve sulla piazzetta mostrandosi con il nipotino di un paio d’anni completamente confuso dai flash. Uno spettacolo triste. Camminai vicino a Berlusconi e d’improvviso mi venne un pensiero: al mio fianco avevo un vecchio. Una figura che in quel momento mi sembrò quasi tragica: tutti gli si stringevano intorno per chiedergli favori, per toccarlo, ma alla fine lui era solo. Una persona anziana con il cerone che gli si scioglieva in faccia per il sudore. Provai a immaginare che cosa pensava mentre tornava nella sua splendida villa da milioni di euro. Chissà se era solo o se aveva di fianco qualcuno come nelle famose notti a Palazzo Grazioli. In fondo non faceva molta differenza: con chi poteva parlare davvero, con le sue guardie del corpo? E guardandolo andare via mi chiedevo: ma ci crede anche lui in questa pantomima assurda che si scioglie come il cerone al sole oppure questa messinscena gli serve anche perché ha una paura matta di restare solo, di invecchiare, di morire?
Può sembrare impossibile, ma ho provato quasi pena per quel signore di settantatré anni.
Ecco, questo resta fuori dal taccuino, ma forse servirebbe per descrivere una figura che a me pare, in fondo, tragica. Anche perché sta coinvolgendo nel suo destino tutto il Paese.
E ancora: estate 1997. I miei primi giorni da cronista al Messaggero. Fui catapultato a seguire il caso Marta Russo. Mi incaricarono di intervistare Giuseppe Scattone, il padre di Giovanni, appena arrestato. Mi appostai sotto casa sua, all’Eur. Aspettai per due giorni. Alla fine, era estate e faceva un caldo terribile, nell’atrio del condominio semivuoto entrò una persona anziana, magra, con le ossa che premevano sotto la giacca troppo larga. “Conosce Giuseppe Scattone?”, chiesi. “Sono io”, mi rispose. E mi fece salire nella sua casa.
Restammo in silenzio per interi minuti, uno di fronte all’altro. Giuseppe Scattone era un uomo con i lineamenti che riflettevano il suo carattere: fini, aguzzi, severi. Una persona, come ha dimostrato durante il processo, fiera, piena di dignità. Mi puntava addosso i suoi occhi. Mi studiava. Poi cominciò a parlare, andò avanti per ore. Aveva bisogno di sfogarsi dopo giorni di silenzio. Io all’inizio annotavo ogni cosa, poi presi soltanto ad ascoltare. Quel padre poteva essere mio padre. Mi mostrava i quaderni di suo figlio. Mi raccontava le notti passate in quella casa con il figlio, uno accanto all’altro, in due stanze vicine. Della compagnia che faceva, a loro due rimasti soli nella casa, la luce che arrivava dalla camera accanto. Mi descrisse lo sguardo di Giovanni quando si affacciava sulla porta della camera per dargli la buonanotte. Mi parlava come se dovesse rispondere a domande che lui stesso si poneva.
No, queste cose non si possono scrivere, ma ti restano dentro. Così come la strana amicizia con Giuseppe Scattone che nacque da quell’incontro. Continuai a scrivere del caso, delle accuse mosse al figlio Giovanni, ma ogni domenica mattina mi presentavo all’Eur e insieme con l’ingegnere andavamo al bar che si affaccia sul laghetto per prenderci un cappuccino con il cornetto. Non gli ho mai chiesto se avesse il dubbio che suo figlio fosse colpevole. Sapevo benissimo, glielo leggevo nello sguardo, che quell’idea non lo aveva nemmeno sfiorato. Sarebbe stato meglio per lui morire. Parlavamo invece di noi, della vita. Neanche una riga di quegli incontri, che ricorderò sempre, è mai finita sul giornale.
E, però, chissà… forse sarebbe stato importante per i lettori. Così come lo è stato per me: grazie a quegli incontri ho capito che perfino in una vicenda tragica come l’omicidio di una ragazza innocente può essere difficile tracciare confini definitivi. Una morte lascia dietro a sé tante vittime. C’è la ragazza uccisa, prima di tutto, ma anche la sua straordinaria famiglia che si è vista la vita rovinata per sempre. Ma (dopo, sia chiaro) ci sono anche i genitori, i fratelli degli imputati che si ritrovano ad amare una persona accusata di un crimine terribile. Lo scrivo con cautela, per non mancare di rispetto a Marta, ai suoi genitori.
“Ci sono più cose in cielo e in terra di quante ne comprenda la tua filosofia”, diceva Shakespeare. Figurarsi di quante ne comprenda un articolo. E noi giornalisti restiamo sempre con il peso di non essere riusciti a raccontare tutto. Con il timore di dimenticare circostanze, persone rimaste fuori dal taccuino.