Imbavagliarsi per protestare contro il bavaglio, ad essere gentili è una decisione surreale. Sbagliata, inefficace ed autolesionista se vogliamo invece parlare fuori dai denti. Marco Travaglio, Paolo Flores e tutti coloro che vi si sono scagliati contro, Vittorio Feltri compreso, dovrebbero assistere un giorno a una seduta del Consiglio nazionale della Fnsi, il “parlamentino” del sindacato unico dei giornalisti. Capirebbero meglio se non com’è maturata (è infatti farina del sacco di pochissime menti) almeno come viene difesa pubblicamente e formalizzata questa decisione.
Se si alza in piedi un consigliere ad anticipare le stesse osservazioni che vari opinion-makers propongono adesso sui giornali e sul web, viene preso per disfattista, rompicoglioni, nemico dell’unità, e magari anche per uno che sta dalla parte del bavaglio. Oppure viene ignorato: lo si lascia sfogare e il discorso muore lì. Il dibattito non si accende: quasi mai. La crisi sindacale del giornalismo (di idee, di impegno, di rappresentatività, di fantasia) è grande almeno quanto quella della professione.
Un altro aspetto che rende sballata la decisione dello sciopero, è che essa colpisce direttamente quelli che dovrebbero essere gli alleati naturali nella battaglia anti-bavaglio dei giornalisti, e cioè gli editori. Mentre le testate che non sciopereranno saranno quelle vicine all’editore Berlusconi, fatalmente infarcite di notizie pro-bavaglio.
Cosa bisognava fare allora? La pagina sindacale forse più bella del giornalismo degli ultimi venti anni è stata scritta il 30 novembre del 2006, quando tutti i giornali italiani, in piena vertenza contrattuale, uscirono con i servizi non firmati. Una forma di ribellione nobile e moderna, nata non dal vertice ma dalla base: dall’iniziativa, cioè, degli organismi sindacali dei più grandi giornali italiani. Di eccezionale efficacia il messaggio letto alla radio e in tv dai conduttori: “Questa edizione esce senza le firme dei giornalisti che protestano perché…”.
Bisognava avere la voglia e la forza di proporre la stessa forma di protesta, concordando nello stesso tempo con la Federazione degli editori uno spazio standard da occupare con articoli chiari (non in sindacalese) che spiegassero perché questa legge soffoca la democrazia. Uno sciopero delle firme, oltretutto, può essere replicato senza fiaccare la resistenza dei giornalisti.
Roberto Natale, presidente della Fnsi, ha appena ricordato, in un’intervista su “Il Fatto Quotidiano”, che la Fieg nicchiava sulla proposta di “una stessa prima pagina su tutti i giornali”, non essendo in grado “di garantire la stessa iniziativa per tutti”. Ed è in grado di garantire, ora, che tutti i giornali scioperino? Certo che no, oltretutto sarebbe contro gli interessi degli editori. E poi una cosa è un’intera prima pagina, un’altra è un titolo di prima pagina che inviti il lettore ad uno spazio interno, standard per tutte le testate. Senza dimenticare l’effetto di telegiornali senza firme, con relativo comunicato, sulle reti pubbliche e private, visto che il 70 per cento degli italiani apprende le notizie dalla tv.
L’impressione è che non ci sia stata la forza, la voglia, la fantasia di trattare la soluzione giusta. Ma se lo sciopero ormai è stato deciso, è certo che adesso va fatto. Indebolire il sindacato sarebbe la soluzione peggiore. Cerchiamo allora di vederla in positivo, come ha appena proposto il presidente dell’Associazione stampa romana Fabio Morabito, lanciando lo slogan: “In silenzio per un giorno per non restare in silenzio per degli anni”.