Perché mai politici potenti ma inseguiti dalle procure, a partire da Berlusconi e Scajola e una schiera di imprese monopoliste ma da sempre sostenute dall’aiuto pubblico, capitanate da Emma Marcegaglia e dall’AD di Enel, Bruno Conti, si sono messi alla testa del più imponente impegno al mondo per il ritorno al nucleare e vengono sospinti da autorevoli personaggi come Umberto Veronesi e Chicco Testa, “esperti” ma tutt’altro che estranei al mondo delle imprese?
Ci sono motivi che vanno oltre la scelta tecnica e che hanno a che vedere con l’idea di democrazia e partecipazione necessaria a costruire il nostro futuro. Un futuro in necessaria discontinuità con il sistema che minaccia la sopravvivenza della vita sul pianeta e con la globalizzazione a spese dell’ambiente naturale e dell’uguaglianza sociale. In effetti, la cancellazione ad opera del Governo di una decisione popolare assunta con referendum nel 1987, non è dettata da una meditazione lungimirante sulla crisi energetica, ma piuttosto da una vocazione autoritaria di chi non tollera il controllo dell’opinione pubblica e dal collegamento acritico di “opinion leaders” con il mito della crescita, anche se esso porta consumo irreversibile di natura e territorio e disprezzo della salute.
Nella situazione data, i reattori atomici si propongono come la tecnologia già disponibile che, garantendo consumi e livelli di vita attuali, mantiene inalterato il resto del sistema ereditato dalle fonti fossili – stessi megaimpianti (“centrali”, nomen omen), stessa rete di distribuzione, analoghe concentrazioni di capitali, ancora maggiore controllo militare – assicurando comando e controllo dell’economia nelle mani degli attuali ceti dominanti. Per produrre il cambiamento, bisogna al contrario pianificare un passaggio verso stili di vita comunitari, perseguire la sufficienza e la riduzione dei consumi non necessari, instaurare una democrazia partecipativa e un sistema di autogoverno del territorio indispensabili per risolvere la crisi ambientale. Anche se si volesse prescindere dalla tecnologia, le priorità andrebbero ribaltate, mettendo al centro vita, giustizia sociale, relazioni virtuose con la natura, valorizzazione dell’interculturalità e della creatività, sovranità popolare. Questo cambio di visuale è incompatibile con la diffusione del ciclo nucleare, che, al contrario, è incurante del territorio e insensibile alle comunità locali e portatore di sprechi enormi con le sue reti lunghe di fornitura che ricoprono l’intero pianeta. Le reti connaturate alle fonti rinnovabili, invece, sono per definizione policentriche, corte, diffuse e i cicli biologico-energetico-naturali che con esse convivono vengono chiusi localmente e favoriscono l’incontro cooperativo tra domanda e offerta, sottraendo il comando della catena alla spinta del profitto verso consumi individuali inarrestabili. La “nuova energia” si può pianificare diffusamente nell’ambito dell’autogoverno comunale e con la partecipazione della popolazione: anche i piani regolatori e i tracciati urbanistici, la dislocazione e la disposizione degli edifici sarebbero ridisegnati sulla base delle scelte energetiche decise insieme nel territorio.
Per concludere, dobbiamo innanzitutto ribadire su un piano politico che l’energia è vita o morte, innanzitutto; non solo potenza, velocità, trasformazione di materia. È relazione, pensiero, affetti, respiro, mobilità muscolare: oggetto squisitamente sociale; non solo merce e prezzo economico. Opporsi al nucleare significa ripensare e ripensarci, spostarsi da un modello muscolare a uno neuronale, da un’organizzazione centralizzata e autoritaria a una decentrata e partecipativa, far procedere finalmente insieme società e ambiente. Per queste ragioni profonde e non solo per l’insostenibilità e l’immane nocività del nucleare, bisogna rompere un quadro statico e rispondere all’insensato “risorgimento nucleare” che ci viene imposto con un NO e un SI. Antinucleari quindi, ma, contemporaneamente, sobri e filo rinnovabili a tutta forza.