Che il 7 luglio a Reggio Emilia non ci fosse una sola bandiera a mezz’asta, né una manifestazione proprio laddove, il 7 luglio di cinquant’anni fa, i cinque martiri sono caduti, mi ha un po’ infastidito.
Il Comune targato Pd ha invece preferito l’opzione fritto misto: in fondo era mercoledì, serata protagonista da qualche settimana delle notti rosa, evento popolare in centro storico, una cosa simpatica tutto sommato anche se culturalmente vicina al nulla in fatto di programmazione, con tanto di maxischermo e cartoni animati d’antan. Il discorso di inaugurazione dell’iniziativa, davanti ai bimbi, è stato imbarazzante: «È tempo che i reggiani si riappropriano il loro centro storico», strategia particolarmente nuova ed efficace per l’integrazione degli extracomunitari in territorio arzan.
Passando poco dopo le 17, ora della strage, nel punto esatto dove cinque persone sono state ammazzate dalla polizia di Stato del governo Tambroni, tra il Teatro Valli e via Crispi, non ho notato niente di diverso dal solito. Faceva solo un po’ meno caldo. La commemorazione è stata dislocata un po’ più in là, nell’ameno scenario del Parco del Popolo.
Anche alla sera, il senso geografico del luogo effettivo del pluriomicidio di Stato era negato alla folla: una rassegna estiva accoglieva uno spettacolo – il cui valore non viene messo qui in discussione – dedicato al 7 luglio, sulla piazza che ha visto nascere il Tricolore italiano, Piazza Prampolini, un po’ come se si volesse commemorare la presa della Bastiglia sugli Champs Elysées. In quella stessa piazza, i reggiani – più che il Comune di Reggio – hanno permesso alla Lega d’insediarsi durante una recente campagna elettorale (pulirsi il culo con la bandiera non è mai stato così facile), per poi vederla conquistare più del 20% nel centro storico.
Ma il peggio è accaduto nella tarda serata del 7 luglio, verso le 2 del mattino. Mentre i bar di piazza San Prospero erano ormai in chiusura, da una parte all’altra della piazza all’improvviso risuona una musica poco soave proveniente da uno dei locali. Accompagnata da un sostegno vocale in versione “corale”, elettrificato: nientemeno che “Faccetta nera”, canzone fascista, sparata e cantata a bomba. Un 7 luglio a Reggio Emilia.
Qualcuno si mette a urlare «fascisti di merda» dal centro della piazza, sono pochi ma disgustati. Un altro entra e si sfiora la lite. Gli viene risposto che il bar è chiuso, che in quel caso è un luogo privato e che vi si fa quel cavolo che pare a chi ci sta dentro. La discussione dura un po’, inutilmente, e gli animi surriscaldati di entrambe le parti alla fine preferiscono evitare di arrivare alle mani.
Però, un altro uomo in piazza non ci sta proprio. È un extracomunitare e ha capito tutto. All’incirca cinquanta metri dal luogo infestato ci sono due casse piene di bottiglie vuote, provenienti dal bar attiguo, in attesa di essere buttate. L’uomo grida e inizia – è da solo – a scagliare bottiglie in aria in direzione del luogo dove sono rintanati i neocamerati, che hanno ricominciato il coro. Fa esplodere il vetro in mezzo alla piazza, a una decina di metri dalla porta nera. Poi fugge.
Stando alle ultime notizie, poco dopo i nostri fascisti in erba sarebbero usciti in cinque o sei, gestore incluso, con scope e bastoni in mano, col chiaro intento di massacrarlo di botte. Sembra non sia successo, ma questo non l’ho visto. C’è chi pensa che potrebbero aver convogliato la loro rabbia sul piccolo monumento eretto in via Crispi in memoria di Lauro Ferioli, Ovidio Franchi, Emilio Reverberi, Marino Serri, Afro Tondelli. Tutti morti cinquant’anni fa, a Reggio Emilia, ammazzati dalla polizia di Stato.
I piccoli fascisti se li ricordano davvero i martiri del 7 luglio. E hanno deciso di fargli la festa.