Mi sento dire che nelle università britanniche vige la meritocrazia. Me lo sento dire da quindici anni. E me lo sento dire soprattutto quando vado in Italia. Mi sono chiesta se qui in UK non se ne parli perché è un valore da dare per scontato, o perché la politically correctness britannica non si abbassa a sporcarsi le mani con l’idea di diseguaglianza. Mi sono risposta che la spiegazione richiede un’analisi molto più dettagliata, ma comunque il risultato rimane che questa tanto inneggiata meritocrazia inglese la notano, rilevano e glorificano solo gli italiani. Leggendo altri contributi proprio a questo blog, che reiterano l’idea che in Inghilterra la propria realizzazione professionale è quasi garantita, mi viene da rimostrare con veemenza.

Come posizione di principio diffido di coloro che ambiscono a vendermi qualunque assioma, e sicuramente stento a vedere la meritocrazia inglese come un fatto scontato, come un elemento intrinseco cultural-tradizionale dell’efficientissima, trasparentissima vecchia Albione. Per spiegare la mia avversione all’idea, cito un solo esempio, che non va preso come esempio-eccezione o una tantum, ma che va inteso come situazione ricorrente, che si presenta a chiunque si misuri con il sistema universitario britannico a livello post-dottorato, cioè in quell’interstizio nella vita da accademico in cui ci si deve armare di santa pazienza per trovare anche solo una sostituzione temporanea di un anno.

L’esempio si chiama ‘internal candidate’. L’internal candidate (IC) e’ l’eletto, ovvero l’ovvio candidato per un posto, il paraculato per eccellenza. Se vi trovate di fronte a una commissione distratta e sbadigliante durante il vostro colloquio, sappiate che avete il fiato di IC sul collo. Va da sé che IC non è per forza il più bravo, ma solo il più scontato, quello che magari si è piazzato da anni e che va sistemato perché ormai si confonde con la tappezzeria, o quello che è diventato, per sfinimento o lecchinaggio o tutt’e due, il protetto di qualcuno importante. Se lo incontrate, non per forza dovete insultarlo, magari la colpa non è sua, è solo del suo prof, che pur di vedere IC seguire le sue ombre sulla sabbia accademica, fa di tutto per spingerlo tra le dune della competizione.

Il fenomeno IC non ha né patria né razza, ed è roba vecchia come il mondo. Esiste anche qui, e qui assume caratteristiche tradizionali prettamente britanniche. All’origine vi è il concetto fondamentale e imprescindibile di ‘networking’. Vi siete mai chiesti perché queste università fighe e ricche (Oxbridge, Londra, ma non solo) organizzano una marea di seminari, congressi, workshop, con drinks e cene annesse? Forse per scambiare opinioni sui grandi sistemi dell’universo o per imparare cose nuove? In parte è di certo così, ma tra questi scopi puri e limpidi, si insinua perentoria l’opportunità di fare networking, che serve anche per spingere gli accademici in fiore a diventare i cocchi di turno. Tra il serio e il faceto, mi viene da dire che chi non sa fare bene il networking, va avanti solo se è un genio oppure può solo competere per raggiungere livelli eccelsi nella finissima arte dello ‘small talk’. Non mi ricordo l’ultima volta che gli appunti presi a un seminario mi siano serviti a qualcosa. Le conversazioni del più e del meno? Utilissime.

Gli italiani sono abituati alle raccomandazioni dai tempi dei Romani. Ma diffidate di chi vi dice che in UK non ci siano. Sono solo meno ovvie e meno plateali. E ‘surrettizio’ sembra più ‘pulito’, ma solo in superficie. Pensare che l’erba-del-vicino-e’-sempre-piu’-verde è un brutto vizio, e da queste sponde albioniche sembra un vizio a cui gli italiani si abbandonano con troppa voluttà. Molte delle inneggiate rose (e fiori) nelle università inglesi sono finte. Ed IC è solo la punta dell’iceberg.

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