La mia amica Alessandra Schiavinato, presidente della Biblioteca Comunale di Montebelluna, si reca da vent’anni a Onna e a L’Aquila dove ha numerosi amici. Il prezioso resoconto della sua ultima visita, risalente al 18 giugno, merita di trovare asilo in questo Blog, specie dopo la giornata organizzata per i giornalisti il 22 giugno scorso dal sindaco Cialente e dopo le ignobili violenze, da parte dei reparti antisommossa, sugli aquilani che hanno manifestato a Roma il 7 luglio scorso.
Cari amici,
sono nel paese di Onna, o meglio, in quello che ne è rimasto. Sono circa le dieci di mattina di una bella giornata di inizio giugno. Sono passati 14 mesi dal terremoto che l’ha devastata. Con un’amica parcheggiamo l’auto appena uscite dalla SS17 che porta a L’Aquila. La prima cosa che ci colpisce è il silenzio. Un silenzio irreale. Non auto, non bambini, non motorini, non trattori, non camion, nessuno dei rumori che fanno vivo un paese.
L’Onna di prima giace inerte sulle sue macerie quasi intatte. Muri a brandelli mostrano impietosamente gli interni di una vita che non c’è più, un’intimità violata: calendari che sventolano all’aria, libri in scaffali sgangherati, quadretti rimasti appesi a monconi di pareti, secchiai ancora da rigovernare, credenze con suppellettili di uso quotidiano, sedie appostate all’uscio, case deturpate come come bocche sdentate.
Ci aggiriamo per quella che era la sua strada principale, quella che porta alla chiesa. Ora è una strada sterrata, contornata da cumuli di macerie, cortili in cui sono implose le case intorno, e ancora case smangiate dalle scosse con crepe larghe una mano. La chiesa (può ancora chiamarsi così un muro perimetrale sostenuto da un’infilata di pali di sostegno ?) non è agibile.
Le opere di consolidamento le hanno fatte tutte i vigili del fuoco, come quasi tutto il resto. Le strade da percorrere sono talmente poche che si finisce quasi subito. Lungo il cammino vediamo per terra dei lumini votivi, come stazioni di una via crucis poste davanti ai luoghi dove un tempo viveva un onnese che qualcuno così intende ora ricordare.
In un cortile sepolto dai sassi una vite cerca ancora di dare i suoi frutti e poco più in là un cespuglio di rose rosse fa ancora la sua parte dignitosamente, a ridosso di un muro. Sassi, macerie, detriti, fili, cavi, mattoni, travi, piastrelle, tutto è accartocciato e sovrapposto, tutto è ancora lì al suo vecchio posto.
Qualcosa non torna. Il vecchio paese è come congelato e mi tornano alla mente le immagini di Beirut bombardata di tanti anni fa. Poi, accanto alle macerie dell’Onna di prima, è sorta l’Onna di ora.
L’ingresso del nuovo “paese” ricorda un campeggio o una colonia estiva: tre bandiere sventolano pronte per l’alzabandiera, la tipologia urbana richiama quella dei villaggi delle vacanze, le casette in legno come piccoli chalet alpini: gerani alle finestre, un piccolo portichetto con tavolo e sedie per pranzare all’aperto, una corsia di verde sintetico a segnare il vialetto di accesso, stendini per la biancheria, graticci per i rampicanti,qualche bici appoggiata al muro. Sono le casette consegnate chiavi in mano da Berlusconi in pompa magna e con gran dispiego mediatico. In verità sono opera del lavoro dei vigili del fuoco di Trento e della Regione autonoma che ha in gran parte finanziato l’intera opera. Non un’anima in vista. Nessun rumore dalle casette.
Finalmente un ronzio. Incredibile, è l’impianto di irrigazione di un prato all’inglese (si, queste casette hanno il prato all’inglese) e c’è pure un fotografo che, con l’aiuto di un assistente, sta scattando delle foto con grande impegno, per chi o per cosa non si sa. In più di un’ora incrociamo solo un anziano su sedia a rotelle spinto da una badante, una ragazza in bicicletta seguita dal suo cane e infine una signora che spazza il portico e sparisce in un lampo.
L’Onna di ora è stata pretesa dagli abitanti per non disperdersi del tutto. Ha una nuova scuola materna, una chiesa nuova di zecca. Ma non ha un bar né uno spazio aggregativo per adulti o ragazzi. Presto avrà un municipio, già in fase di costruzione (la Casa Onna ), che pare sarà ultimato entro settembre 2010.
Udite, udite: il progetto per la costruzione della casa municipale di Onna avviene con il contributo offerto dall’Ambasciata della Repubblica Federale di Germania, da Volkswagen, Deutsche Bank, Unicredit, ThyssenKrupp, E.On, il land Baviera e altri donatori privati. Hanno collaborato, a titolo gratuito, lo studio architetti Mar srl di Zelarino-Venezia per il progetto, lo studio Blutec s.s. di Marghera Venezia per il progetto delle strutture, Tifs Ingegneria di Padova per il progetto degli impianti e l’Ing.Giuseppe Blandino per il Piano di sicurezza e Coordinamento in fase di progettazione e la ditta esecutrice Caron di Vicenza. Sarà un caso che siano tutti veneti?
All’uscita da Onna sostiamo davanti a un lungo murales che riporta frasi di Giustino Parisse, giornalista del quotidiano Il Centro. Nel crollo della casa di famiglia, a Onna, sono morti i suoi due figli, Domenico di 18 anni, Maria Paola, di 16, e il padre. Un lungo lamento di dolore che squassa pancia e cuore. : ”Quant’era bella Onna quella notte, prima dello scossone orrendo. La luna rischiarava i vicoli: via dei Calzolari, via Oppieti, via dei Martiri, via Ludovici, via della Ruetta, via delle Siepi. Dentro, mille anni di storia, e milioni di storie: uomini e donne che quel piccolo paese in fondo alla valle dell’Aterno avevano costruito e amato. In quella orrenda notte abbiamo perso tutto: le vite umane, le case, il nostro borgo’.’
Ora le strade si chiamano invece: Via della Ricostruzione, Via del Volontariato. Differenza semantica e poetica ad altissimo peso specifico.
A distanza di 14 mesi, cosa ne pensano gli onnesi? La ricostruzione di un paese può ridursi a questo nuovo contenitore senza storia, senza anima, abitato dal silenzio e dalla nostalgia?
Risaliamo in auto per dirigerci verso l’Aquila. Prima di arrivarci, lungo la strada vediamo i nuovi palazzoni costruiti dopo il terremoto: appaiono come ritagliati da un altro luogo e appiccicati là, a mo’ di figurine. Li hanno nominati New Town, molto cinematograficamente.
L’Aquila sorge a 714 metri e guarda in faccia il Gran Sasso. È capoluogo di regione, sede di università, ricca di chiese, basiliche, bei palazzi antichi di grande pregio, monumenti, la famosa fontana delle 99 cannelle che ricordo bellissima.
Sul suo stemma la scritta “Immota manet” suona come una beffa fottuta. Di circa 73.000 abitanti, oltre 65.000 gli sfollati iniziali, a un anno dal sisma pare siano appena scesi sotto i 50.000. Tanti, Troppi.
Parcheggiamo alla stazione e proseguiamo verso il centro città con i mezzi pubblici. La stazione è in rifacimento al solo scopo di riportarla in condizioni minime di sicurezza. L’estetica è un optional. Alcuni locali ospitano i CAAF dei sindacati.
Saliamo sul primo autobus che passa e scopriamo che, dopo il terremoto, il trasporto è gratuito, però nessuna sa dove vada la vettura. Quindi prima di salire si deve chiedere all’autista quale direzione e quali fermate effettuerà per capire se vicino o lontano al luogo in cui si è diretti.
È passato oltre un anno e solo il Corso principale e qualche altra strada del centro storico sono state da poco riaperte. Gli spostamenti sono difficili e non organizzati, i mezzi arrivano fino ad un certo punto non oltre, nessuna indicazione che aiuti la popolazione a riorientarsi. Tutto questo, e molto altro, è funzionale soltanto a un perenne stato di emergenza, dove la pura sopravvivenza si fulmina la maggior parte delle energie individuali.
Siamo sull’autobus da oltre venti minuti e ci accorgiamo che, invece di andare verso il centro, ce ne stiamo allontanando. Poco male, vedremo un pò di periferia: l’Ospedale e Coppito, dove ha sede la scuola ispettori della Guardia di Finanza e dove lo scorso anno si è svolto il G8 bollato da vari giornalisti come un evento “di plastica”.
Un altro autobus ci fa fare il percorso inverso, questa volta in direzione esatta. Quando scendiamo in centro, alla Fontana luminosa, è ora di pranzo. Dovrebbe esserci il solito viavai cittadino, con i lavoratori che migrano dagli uffici ai baretti per una pausa e un pranzo veloce. Invece il Corso che porta alla piazza del Duomo è deserto, non c’è quasi anima viva se si eccettuano i manovali, i molti militari e un vigile. Nessun segno di attività commerciale. I negozi sono tutti inattivi, polverosi e sconsolatamente vuoti. Di cosa campa oggi questa città-fantasma?
Camminiamo. Il Corso è transennato e ingombro di ponteggi, sacchi di sabbia come fossimo sulle barricate. Tutte le strade laterali che si aprono sulla destra e sulla sinistra sono sbarrate da transenne che ne vietano l’accesso, ma che non nascondono i cumuli di macerie ancora da rimuovere. Sulle transenne sono appese chiavi di ogni foggia e misura, appelli e messaggi scritti dalla popolazione. Stile Ground Zero.
In uno dei fogli appesi leggo l’imperativo kantiano “ Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me “. Che nobile esercizio di autocontrollo!
Intervisto un vigile urbano lungo il Corso. Il suo compito è bloccare e reindirizzare le rare auto di passaggio. Per quanto ne sa, non sono state definite priorità di intervento ricostruttivo e infatti tutto il centro storico è fermo, vi si sta solo consolidando e mettendo in sicurezza. Anche il vigile risiede in un bungalow ai margini dell’Aquila.
Il Consiglio Comunale non ha una sede fissa per riunirsi, è itinerante. Il Sindaco Massimo Cialente, a giudizio del vigile intervistato, è stato inizialmente molto coraggioso, ma poco a poco si è fatto travolgere dalla situazione sotto il profilo pratico. Cialente è medico pneumologo presso l’ospedale San Salvatore dell’Aquila. Altre sono le emergenze a cui deve essere abituato.
Il suo ruolo, oltre che di primo cittadino, è anche di Commissario Governativo per la Ricostruzione. Difficile sapersi muovere in una situazione così conflittuale. Difficile farlo se le tue controparti hanno progetti diversi dai tuoi. Difficile farlo se sei coinvolto in trattative estenuanti, sempre in nome dell’emergenza. Chissà cosa si aspettasse quel vigile. Non lo diceva con rabbia, anzi, lo diceva con rassegnazione.
La città, ponteggiata ovunque, è in mano alle imprese e ai loro muratori e manovali, ma il ritmo di lavoro (è un mercoledì) è lento e pigro. Non si sentono il fervore e l’alacrità tipici dei “veri” cantieri in corso. La sede aquilana della Banca d’Italia è curiosamente intonsa: nemmeno un piccolo graffio. La sorte.
Militari in jeep stazionano agli imbocchi di molte strade. Ne intervisto due coppie. La prima, formata da due ragazzi molto giovani, mi informa che gli è stato assegnato il compito di vigilare che non avvengano atti di sciacallaggio in tutta la zona rossa (il centro storico) poichè le case sono state evacuate, lasciando al loro interno tutti i mobili e ogni genere di proprietà. Devono anche vigilare che false imprese non si intrufolino, per cui chi lavora deve essere munito di pass con autorizzazione. Di sera vige il coprifuoco, come in guerra. Dalle 22 fino alle 8 del mattino la città vecchia resta chiusa, anche se i militari vigilano 24 ore al giorno.
La seconda coppia è composta da un ragazzo e una ragazza, anch’essi molto giovani. Sembrano non rendersi conto delle implicazioni del tempo che scorre via, inutilmente. La ragazza ridacchia. Le chiedo se ha paura a fare i turni di notte. “E di che?”, risponde.
Le case. Dalle finestre rimaste aperte tende che svolazzano. Si intravedono pezzi d’arredamento. Nei villini liberty il giardino si sta trasformando in selva. A rendere più irreale la scena, un cane che ci gira attorno frugando col muso nei detriti a lato della strada. Un cane nero a tre zampe. Forse anche lui ha perso qualcosa nel terremoto.
Scendiamo verso la Casa dello Studente. Un nodo ci stringe la gola, sempre più forte. Camminiamo in fila indiana lungo via XX Settembre a senso unico, costeggiata da negozi abbandonati. Al civico 46 la scena è così forte e carica di implicazioni, che le gambe cedono. Quella che chiamano l’ala nord dell’edificio è implosa. Le porte antipanico verdi dei cinque piani dell’edificio ora si affacciano nel vuoto. Ai lati di ogni vano ancora gli armadi con poster e foto attaccati. 50 stanze erano, 119 posti letto. Oltre 400 scosse. Nemmeno un sopralluogo.
Mancava un pilastro reggente, hanno scritto i giornali: mancavano le staffe di armatura dei pilastri all’interno dei nodi della struttura, calcestruzzo misto a sabbia, robusto come polistirolo. Sotto al palazzo c’era un vuoto, il tetto non era impermeabilizzato. Chissà cos’altro ancora è stato sacrificato insieme ai ragazzi sepolti. Luciana, Davide, Angela, Francesco, Hussein, Luca, Marco, Alessio sono i nomi dei ragazzi morti. Avevano tra i 20 e il 25 anni. Le loro foto sono appese alle transenne che recintano l’edificio.
Tocca rientrare. Andiamo piano verso la stazione ferroviaria e tutto il muro di cinta messo in sicurezza riporta le targhe colorate di coloro che hanno realizzato l’opera: Vigili del fuoco di Torino, di Alessandria, di Grosseto, di Padova e ancora altri vigili del fuoco che non ricordo più. Solo Vigili del Fuoco. Della Protezione Civile non abbiamo visto nessun cartello. Ci sarà di certo sfuggito.
Si fa largo l’amara sensazione che i centri storici de L’Aquila e degli altri paesini colpiti non saranno mai più ricostruiti. Ma cresceranno altre New Town, con centri commerciali che accoglieranno gli sfollati fuori delle città. Quanti borghi e paesini abbandonati ad un destino di oblio e di solitudine.
Alessandra Schiavinato. 18 giugno 2010