Al termine d’una complessa (ma sorprendentemente rapida) trattativa con il cardinale Jaime Ortega e con Miguel Ángel Moratinos, ministro degli esteri di Spagna, il governo cubano ha deciso la liberazione “dilazionata” – cinque subito, gli altri 47 durante i prossimi tre o quattro mesi – di 52 dei suoi prigionieri politici. O, se si preferisce, parafrasando George Orwell: di quelli, tra i suoi prigionieri politici, che sono, per molte ragioni, “più politici” degli altri. Quanti, in effetti, siano questi “altri” non è facile dire, visto che la lista delle persone finite in carcere esclusivamente per reati d’opinione variava, fino a ieri, dallo zero assoluto millantato dal governo, ai 62 finiti nelle liste dei “prigionieri di coscienza” stilate da Amnesty International, ai 167 calcolati dalla Comisión Cubana de Derechos Humanos y Reconciliación Nacional. Ma più che certo è, in questo balletto di cifre, un fatto: i 52 liberati – o liberandi – erano quel che restava (restava nelle patrie galere) dell’operazione di politico repulisti che – passato agli archivi come la “primavera negra” – negli ultimi anni più ha simboleggiato, nel mondo, la persistente natura repressiva della Cuba socialista.
Riassumiamo, per sommi capi: la mattina del 18 marzo del 2003, 75 persone (perlopiù intellettuali e giornalisti indipendenti) vennero arrestate con l’accusa d’aver attentato contro la sicurezza dello Stato e quindi – dopo una catena di processi, tutti condotti a porte chiuse e tutti conclusisi in giornata – pressoché istantaneamente e senza eccezioni condannate a pene tra i 15 ed i 28 anni di carcere (da espiare, al fine di recidere le radici della sovversione, in carceri il più lontano possibile dal luogo di residenza). In che modo quei 75 “rei” avevano cercato di sovvertire l’ordine costituito? Quali furono le “armi” con le quali avevano minacciato (o si proponevano di minacciare) la stabilità istituzionale per conto d’una potenza straniera? La risposta viene– nell’assoluta mancanza di trasparenza del giudizio – dalle due uniche fonti che sono oggi (ed erano ieri) disponibili. Il testo delle sentenze ed il testo d’un libro dal sardonico titolo – “Los Disidentes” – la cui stesura il governo affidò poco dopo gli arresti a due giornalisti di sicura fede, Luís Báez e Rosa Míriam Elizalde, con lo scopo precipuo d’illustrare al mondo la piena legittimità del suo agire. Due fonti – come si vede – decisamente “di parte”. E che, tuttavia, sono a loro modo diventate due monumenti all’intrinseca, feroce stupidità del regime che pretendevano difendere.
Leggere, nel testo delle sentenze (26 in tutto), un lungo elenco di colpe che non si sa in che modo siano state provate (anche perché provate non sono state), è, prevedibilmente, un esercizio alquanto tedioso. Ma la lettura di repente s’illumina allorquando quei grigi documenti prendono ad elencare i “corpi del reato: “….un apparato di registrazione marca Sony…una macchina da scrivere marca Olivetti…una macchina fotografica Polaroid di colore nero e dorato, modello 900 Z…una radio portatile di marca TECSUN…due copie della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani …una penna biro usa e getta con inchiostro di colore azzurro, marca MOLIN… copia d’un libro dal titolo “I discorsi di Martin Luther King…..” (l’elenco di queste “armi letali” potrebbe continuare per alcune decine di pagine, ma credo d’aver reso l’idea). Ed ancor più luminosa – nella sua tenebrosissima realtà – diventa la lettura dei fatti, quando, dal burocratico tono dei documenti giudiziari, si passa alle pagine di “Los Disidentes”.
Che cosa ci racconta, infatti, quel libro? Nientemeno (attraverso una serie d’interviste) che le eroiche imprese degli infiltrati – gli agenti della “Seguridad del Estado” travestiti da dissidenti – che smascherarono le diaboliche trame dei condannati. Trame che, peraltro, sempre si erano svolte alla luce del sole. E che si erano svolte alla luce del sole perché, in effetti, trame non erano mai state. Divertente (tragicamente divertente) è costatare come proprio gli infiltrati fossero, quando agivano sotto mentite spoglie, i più aggressivi nel loro dissenso “anti-socialista”. E come proprio loro fossero quelli che lavoravano in più stretto contatto con “il nemico”. Ovvero: con la Sezione d’interessi degli Stati Uniti, allora diretta, sotto gli auspici di George W. Bush, da James Cason, un personaggio che, per arroganza e stupidità, ha fatto, nei suoi due anni di permanenza all’Avana, più regali propagandistici al regime castrista (e più danni alla dissidenza), di quanti ne avesse a suo tempo fatti, sul piano economico, la vecchia Unione Sovietica.
Non è il caso qui di entrare in dettagli (chiunque può scaricare e leggere il libro nel sito de La Jiribilla). Ma vale la pena sottolineare come “Los Disidentes” abbia finito per scoperchiare – contro le proprie intenzioni ed a causa, evidentemente, dell’ottusità generata da troppi anni d’assenza di vero confronto politico – un aspetto della repressione cubana che persino le sentenze avevano tenuto in ombra. Vale a dire: la natura “spionistica” del regime, la realtà d’una società di “nemici” che, fondata sull’indecenza della delazione, è mille miglia lontana dalle aspirazioni di quanti (e chi scrive si annovera tra questi) ancora credono nella possibilità d’un socialismo fatto di giustizia e di libertà.
Questi sono gli antecedenti. Ed inevitabile è, ora, domandarsi in che misura la liberazione (al momento solo annunciata) delle 52 vittime della “primavera negra” ponga la parola fine a questa brutta storia. In piccola misura. Perché – come già avvenuto in passato – quella che viene presentata come una liberazione non è, in realtà, che una deportazione. I 52 sono, in sostanza, “liberi” di andarsene in Spagna. I primi cinque, forse, accompagneranno Miguel Ángel Moratinos,come altrettanti trofei, nel suo viaggio di ritorno a Madrid. Gli altri seguiranno alla spicciolata e senza troppa pubblicità. Questa è la storia. Ed è una vecchia storia. Era stato così per molti dei dissidenti a suo tempo liberati dai Gulag sovietici. Era stato così, sei anni fa, per il più famoso dei 75 arrestati a Cuba, il poeta Raúl Rivero (anche lui deportato in Spagna).
Ma, per quanto piccola, va – questa misura – accolta con gioia. Perché 52 esseri umani escono da un carcere nel quale erano entrati senza a ver commesso alcun reato. Perché Guillermo Fariñas, che da 135 giorni era in sciopero della fame per chiedere la liberazione dei prigionieri politici in cattivo stato di salute, ha ripreso a mangiare e, forse, non farà la fine che fece, lo scorso febbraio, Orlando Zapata Tamayo (il “delinquente comune” Orlando Zapata Tamayo, come indecorosamente lo definirono anche alcuni castristi di casa nostra). E perché la vicenda dimostra come il dialogo porti comunque più lontano della reiterazione di politiche di chiusura – quella anacronisticamente iniqua dell’embargo in particolare – che sono a loro volta il prodotto di un’ingiustizia ancor più grande di quella perpetrata contro il dissenso a Cuba.
“Che il mondo si apra a Cuba e che Cuba si apra al mondo”, aveva detto Giovanni Paolo II, nel gennaio del 1998, durante la sua visita a Cuba. Ieri, dopo 12 (e passa) lunghi anni, dal lato degli Usa la porta resta serrata in mezzo secolo di controproducente rivalsa. E, dal lato cubano, si è aperto qualcosa che assomiglia, appena, ad uno spiraglio. Da quello spiraglio stanno per passare oggi – libere, ma esiliate – 52 persone che, senza colpa, marcivano in prigione. Non è molto. Ma è meglio di niente.