Di rilievo, sulla stampa nazionale (e non solo), ne ha avuto molto, ma in pochi hanno commentato (se escludiamo i rodati lettori del Sole24ore) la “Lettera degli economisti”, sulla quale intendo dunque tornare proprio in questo blog.

Non tanto per esprimere una mia opinione tecnica in proposito – non ne sarei in grado; osservo che sul sito noiseFromAmerika(http://www.noisefromamerika.org/index.php/articles/L’economia_politica_de_%22gli_economisti%22_#body), due economisti italiani che insegnano negli Stati Uniti, Alberto Bisin e Michele Boldrin, hanno attaccato pesantemente la lettera, ravvivando l’antico dibattito tra keynesiani, quelli della lettera, e non) – quanto per dare ai lettori del Fatto uno spazio per commentare l’iniziativa dei 100 e più economisti che hanno inviato quella lettera al governo e ai rappresentanti italiani presso l’Unione Europea.

Aggiungo però qualche riflessione in merito, quelle appunto di un non specialista. I 100 economisti si pongono essenzialmente contro le tante politiche di austerità che percorrono il quadro economico dell’Europa. La nuova austerity, spiegano, non farà che aggravare la crisi, e spingere gli stati più deboli, quelli più soggetti alla speculazione, al di fuori dell’euro. Una tesi che condivido, perché sono d’accordo sulle premesse: “Il punto fondamentale da comprendere è che l’attuale instabilità della Unione monetaria non rappresenta il mero frutto di trucchi contabili o di spese facili. Essa in realtà costituisce l’esito di un intreccio ben più profondo tra la crisi economica globale e una serie di squilibri in seno alla zona euro, che derivano principalmente dall’insostenibile profilo liberista del Trattato dell’Unione e dall’orientamento di politica economica restrittiva dei Paesi membri caratterizzati da un sistematico avanzo con l’estero”.

Liberismo più austerità erano già lì, e ci hanno condotti al disastro. L’Europa è già il regno di quell’economia che si vuole legge naturale valida in ogni tempo e luogo, di quell’economia che si finge in grado di autoregolarsi. Sia perché questa è stata la scelta di fondo ai tempi della creazione del mercato unico – o forse questa è stata la direzione verso la quale si è spinto il progetto di costruzione europea –, sia perché i governi – non i mercati: Bisin e Boldrin ritengono invece che i 100 economisti intendano semplicemente sostituire il mito dello stato a quello del mercato – e in primis la Germania, nostro leader, hanno scelto, negli ultimi anni, di puntare appunto sulla restrizione, e cioè sul contenimento dei costi delle esportazioni (salari più bassi e smantellamento progressivo dello stato sociale), piuttosto che sulla crescita interna.

I 100 non sono gli unici a pensarla così: fior di economisti internazionali la vedono nello stesso modo (si leggano i tanti articoli in proposito proposti dal sito Project Syndicate, http://www.project-syndicate.org/series_s/1). Ma quello che mi preme sottolineare è che (per una volta?) gli economisti si siano anche posti, magari solo indirettamente, il tema della costruzione europea da un punto di vista non solo economico: se anche Bisin e Boldrin avessero paradossalmente ragione, e cioè, aggiungo io, se i keynesiani, per così dire, intendessero semplicemente riportare l’economia europea, anche ai tempi della crisi, nell’alveo di un più complessivo progetto d’integrazione sociale europea, un progetto che, scrivevo in tempi orami lontani, non può che essere di sinistra – promozione dei diritti civili, sociali, politici, modello sociale attento alla solidarietà tra classi e generazioni, difesa della qualità della vita –, non sarebbe già un enorme passo avanti? Se il liberismo – colpevole o meno che sia dell’attuale crisi – conduce diritto verso una sempre più insostenibile disuguaglianza di reddito, non sarebbe il caso di approfittare della crisi, se possibile, per invertire la rotta e ridiscutere i principi che hanno ispirato le politiche europee degli ultimi anni? In fondo, l’alternativa è che la crisi ci costringa a ridiscutere non solo le politiche, ma l’Europa stessa.

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