“Habent sua fata libelli”
Terenziano Mauro
(De litteris, De syllabis, De Metris, 1, 1286)
Ho qui accanto a me il “nemico”. Una scatoletta grande come un libretto tascabile, inaspettatamente leggera, del colore incerto di un’alba invernale. E’ un oggetto piuttosto elegante e sottile: appena 9 millimetri di spessore. Le sue dimensioni sono 20×12 centimetri. Lo schermo è grande 6 pollici con risoluzione 600×800 a 16 toni di grigio. In pratica la stessa luminosità della carta. Sotto lo schermo c’è una tastiera completa, utile per prendere appunti o per cercare parole specifiche all’interno di un testo o nel vocabolario integrato (250mila lemmi). Per controllare la navigazione tra le pagine ci sono 4 pulsanti laterali e un piccolo joystick. La capacità della batteria arriva fino a 2 settimane e la velocità di aggiornamento dello schermo e la memoria interna è di 2 giga. Ha poi il “Read to Me”: un’applicazione che consente ai più pigri o non vedenti di farsi leggere le storie direttamente dall’apparecchietto, attraverso i due piccoli altoparlanti posti sul retro o con gli auricolari.
Si chiama Kindle, e non l’ha prodotto una società di gadget tecnologici (anche se in questi anni sono usciti altri apparecchi simili dai nomi stravaganti: Cybook Opus, Skiff, Nook di Barnes & Nobels, Sony Reader, Iliad, Bebook, iRex DR 1000 ecc.), ma il più grande venditore di libri del mondo: Amazon, che lo offre sul suo sito a 259 dollari e lo recapita a casa in pochi giorni. E’ stato uno dei gadget di più venduti dell’ultimo Natale.
Il modello odierno, in fondo ancora abbastanza “primitivo” rispetto alle potenzialità di un simile oggetto, è, nei fatti, un’evoluzione sensibilmente migliorata del suo predecessore, presentato nel novembre del 2007 e accolto da un successo forse inatteso dalla stessa azienda produttrice. Nonostante i dati di vendita ufficiali non siano mai stati diffusi, gli analisti di Citigroup stimano che la prima versione dell’eBook abbia venduto la cifra consistente di circa 500 mila pezzi (esauriti nel giro di un anno).
Amazon ha fatto un accordo con i principali operatori telefonici del mondo così che Kindle può connettersi a internet per scaricare libri e giornali in pochi secondi. Si pagano le cose che si comprano, ma non la connessione e il download (con una connessione Wifi su rete 3g). Un libro arriva su Kindle in meno di 60 secondi, mentre lasciando accesa la periferica nella notte viene automaticamente “recapitato” il giornale per cui si è sottoscritto l’abbonamento.
Oltre 250 mila tra romanzi e altre opere letterarie sono disponibili nello store online di Amazon al prezzo di 9,99 dollari.
Con Kindle è facile pagare, come in tutto l’eCommerce e, come si sta già osservando, la gente gradisce questo modo di acquisto. I libri poi avranno un prezzo della metà rispetto a quelli cartacei, perché costerà molto meno produrli e distribuirli.
Kindle non è un libro, ma un potente apparato di lettura.
Il suo successo è reso possibile dal fatto che negli ultimi anni sono cambiate rapidamente le nostre abitudini. La lettura di articoli e testi vari sul computer è diventata prevalente rispetto a quella su carta, e le persone stanno iniziando ad adattarsi anche a leggere sui telefonini come iPhone e Blackberry. Del resto, ormai da anni non scriviamo più su carta e mandiamo meno lettere e fax. Poiché tutti scriviamo imprimendo le nostre frasi in una realtà immateriale è abbastanza ovvio che si arrivi anche a riprodurle in modo immateriale (digitale).
Sta accadendo la stessa cosa che è capitata al consumo della musica con l’avvento dell’iPod (che è un lettore di musica digitale basato su hard disk e memoria flash).
E’ facile immaginare che l’ “eBook reader” della Apple, con design accattivante e funzioni facilitate, incrementerà la diffusione degli apparecchi per fruire i libri elettronici e li renderà rapidamente degli oggetti di uso quotidiano, come è successo appunto con l’iPod o l’iPhone. Il Tablet Apple è dotato di capacità wireless per scaricare da iTunes video, canzoni e contenuti digitali. Ha dalla sua avanzatissime funzionalità multimediali per operare da media center portatile, televisione digitale, console di gioco e lettore di libri elettronici. Il tutto in alta definizione: una sorta di grande iPod Touch con schermo di 10 pollici che basta sfiorare con un dito per battere su una tastiera, sfogliare, disegnare, sottolineare, evidenziare ecc.
Dal punto di vista commerciale, Apple può contare su iTunes con 100 milioni di clienti, già registrati con le loro carte di credito.
Nel campo della tecnologia, come sappiamo ormai per esperienza quotidiana, tutto evolve e si diffonde in modo velocissimo. L’iPod fu presentato sul mercato dalla Apple il 21 ottobre del 2001 (nel frattempo evolutosi in sei generazioni di prodotti sempre più raffinati). In soli otto anni ha avuto questi effetti: cancellato quasi totalmente i CD e i negozi di dischi; messo seriamente in crisi la vecchia industria discografica; aumentato il consumo di musica, soprattutto tra le nuove generazioni; fatto rinascere un piccolo commercio di dischi in vinile per appassionati nostalgici. C’è addirittura chi, come l’anziano artista inglese David Hockney, grazie all’applicazione Brushes, “dipinge” facendo scivolare le dita sullo schermo touch screen dell’iPod, scegliendo i colori e le sfumature e inviando poi le immagini via mail.
Ma non bisogna dimenticare che l’iPod, per quanto riguarda l’ascolto della musica, non è diverso dai CD, le musicassette o i vecchi dischi. La fruizione (seppur divenuta più facile e comoda) è sempre la stessa. Per il libro elettronico invece occorre che si ingeneri e diffonda un’abitudine alla lettura su un supporto diverso dal libro cartaceo. C’è lo stesso salto che ci fu dal concerto dal vivo al disco (che faceva sembrare ad André Gide aver la stessa differenza tra guardare svolazzare una farfalla e vederla imbalsamata): con qualche freddo e fastidioso fruscio in più (eliminato poi dai filtri e dai CD), ma molti colpi di tosse e starnuti in meno (nonché la possibilità di mixare più esecuzioni in modo da produrre una meno naturale, ma sicuramente più perfetta, esecuzione).
ITunes è diventato in pochi anni il maggior punto di vendita di musica e ha spostato l’acquisto unitario dall’album alla singola traccia, rivitalizzando un mercato in declino. Forse questo cambiamento sarà immaginabile anche nel consumo dei libri: la possibilità, ad esempio, di acquistare (pagando molto meno) soltanto un racconto di una raccolta; un capitolo “di prova”; la parte di un libro necessaria per un esame; un capitolo inedito o successivo alla diffusione di un‘opera.
Ci sarà ovviamente un periodo intermedio in cui i due sistemi librari (analogico e digitale) conviveranno. Coloro che hanno oggi più di quindici anni ameranno ancora maneggiare anche i libri cartacei. Noi più anziani addirittura ci ostineremo nella ricerca di vecchi libri (che saranno quelli della nostra gioventù sui quali ci siamo divertiti e formati).
Il formato internazionale più diffuso per gli eBook è ePub che si adatta automaticamente allo schermo (mentre con i Pdf bisogna continuamente ingrandire e rimpicciolire, sullo schermo, il testo). Per trasferire un libro tradizionale (analogico) in forma elettronica (digitale) il costo è di 1 euro da pagina cartacea, e 2,5 euro da pellicola. Quindi per un libro medio di duecento pagine il costo di realizzazione in forma elettronica è 200 euro. Un prezzo molto inferiore a qualsiasi ristampa tradizionale.
La nuova editoria (elettronica) diverrà un’industria più semplice e facile rispetto a quella (in crisi) odierna. Sarà basata su una produzione più artigianale e gestita da pochi, ma tecnicamente molto attrezzati e assai sensibili ai contenuti dei libri. Gli apparati amministrativi, cresciuti a dismisura negli ultimi decenni, saranno ridimensionati per palese inutilità. Tutto tornerà ad essere piccolo, costerà poco e non avrà bisogno di sofisticati e parassitari sistemi gestionali.
Fare libri costerà poco e anche nell’editoria sarà possibile venire incontro a una delle tendenze del nostro mondo ipermoderno: i consumatori sono parte attiva della produzione. Non è infatti più possibile pensare di poter tenere fuori dal mondo dei libri e dei giornali gli acquirenti, che vogliono essere sempre più coinvolti, perché la tecnologia li ha abituati a essere protagonisti, a creare dei contenuti. Nell’editoria già oggi nessuno è più difeso come prima e tutti debbono reinventarsi, soprattutto dal punto di vista commerciale. Come sostiene Francesco Caio, uno dei padri di Omnitel, Internet ha spezzato il vincolo di integrazione verticale su cui si sono sempre basati i modelli di business tradizionali dei media. Ancora cinquant’anni fa chi produceva aveva un controllo quasi totale della distribuzione con modelli integrati (“Corriere della Sera”, 12/XI/2009).
Gli editori però saranno sempre necessari, anche in assenza di libri di carta. La loro fondamentale funzione di scoperta, scelta, sollecitazione, azzardo, consiglio, correzione, sarà ancora necessaria per produrre buone opere, tramandare rinnovando la tradizione e allargare l’orizzonte culturale. Nel momento in cui l’opera letteraria diventerà, come in parte lo è già, sempre più simile alla produzione cinematografica (dove molte persone concorrono, con diverse competenze, alla realizzazione del prodotto finale), l’editore, e il suo editor, saranno le figure che rendono possibile e garantiscono la qualità dell’opera letteraria o saggistica. L’editore costituirà il momento creativo dell’evento letterario; spesso più dell’autore (o degli autori). Venendo a mancare la materialità del libro, e divenendo meno certa la natura dell’autore, si rafforzerà e assumerà maggiore importanza la figura dell’editore (come già succede, ad esempio, nell’editoria scolastica).
Molti mestieri, legati alla filiera produttiva e distributiva del libro, spariranno invece piuttosto rapidamente.
Cosa sopravviverà dell’editoria tradizionale?:
1) gli autori: sono comunque la materia stessa dei libri. La loro creatività avrà nuove strade attraverso le quali esprimersi. Il libro elettronico fa già intravedere interessanti percorsi interpretativi. La libertà dalle rigidità della carta stampata, la possibilità di inventare degli ipertesti; l’interazione con le immagini e i suoni, renderanno i libri del futuro molto diversi da quelli che abbiamo conosciuto sin’ora. I link (la possibilità di evidenziale una parola e aprire una o più “finestre” connettendosi ad altri testi, immagini, musiche) rendono i libri elettronici aperti a infiniti percorsi narrativi e di approfondimento.
2) di conseguenza anche i traduttori: rimarranno una figura centrale dell’industria libraria. Il loro ruolo di mediatori tra lingue e culture diverse è sempre stato fondamentale nelle varie civiltà. I traduttori spesso, e giustamente, venivano venerati come santi tanto che, ad esempio, la chiesa armena ha una Festa dei Santissimi Traduttori. Anche se un giorno dovessimo, come per il Latino nell’antichità, parlare e leggere tutti in inglese, il ruolo dei traduttori, rispetto a quattromila anni di storia passata, sarebbe comunque necessario (anche perché i paesi anglosassoni continuano ad essere avari di traduzioni e, nella maggior parte dei casi, poco attenti alla loro fedeltà all’originale).
3) ci sarà sempre bisogno dei redattori e degli impaginatori: i testi elettronici, seppur immateriali, dovranno essere ben curati e corretti e strutturati secondo il saggio criterio di rendere il più possibile agevole la lettura e la comprensione del testo.
4) i grafici perderanno il controllo sulle copertine. I libri elettronici avranno una faccia molto sobria. Le copertine colorate (spesso veri capolavori del design) servono per catturare l’attenzione del compratore che passa tra i banchi affollati di una libreria. Questa funzione (che è anche quella di riconoscere a colpo sicuro una casa editrice o una collana) verrà meno. I grafici dovranno indirizzare la loro creatività solo sull’impaginato dei libri o la costruzione degli “ipertesti”.
5) gli stampatori purtroppo andranno a sparire. La conversione di un testo elettronico in un libro cartaceo, come avviene ancor oggi, ad esempio con il “print on demand”, si ridurrà sempre più per ragioni economiche, ecologiche e soprattutto di abitudine a leggere sullo schermo. Sopravvivranno alcune stamperie specializzate nella stampa di libri d’arte, libri-oggetto-d’arte e libri per bambini piccoli (con i meravigliosi e insostituibili “pop up” che rendono il libro cartaceo un divertente gioco) e le sempre più diffuse “graphic-novel” (che non sono dei semplici “fumetti”, ma un vero e proprio genere letterario che coniuga in modo assai suggestivo immagine e testo) .
6) spariranno anche i promotori: perché tutta l’attività di propaganda e raccolta degli ordini passerà in rete e non sarà più indirizzata a convincere il libraio. Il rapporto tra il produttore e il lettore sarà diretto (tutt’al più mediato da figure come, ad esempio, i docenti che scelgono e adottano i volumi). Verso questi “mediatori”, capaci di procurare consistenti quantità di acquisti, dovrà essere indirizzata una promozione che, è facile immaginare, sarà tutta fatta per via elettronica (mail, invio di “materiale di promozione” ecc). Il nuovo marketing sarà tutto da inventare.
7) come per tutte le altre merci, anche nel caso dei libri, la distribuzione è diventata sempre più importante e potente, prendendo spesso il controllo sia di librerie che di case editrici. Ma anche i distributori e i magazzini diventeranno totalmente virtuali, con grandi risparmi di spazi e tempi di movimentazione dei volumi. I magazzini virtuali saranno infiniti: tutti i volumi (via, via che quelli precedenti a questi anni verranno digitalizzati) saranno disponibili e acquistabili. Non ci saranno più maceri delle rese e delle eccedenze.
8) gli uffici stampa dovranno sin da ora affrontare la sfida della promozione del libro elettronico. Inizialmente le redazioni dei giornali, e soprattutto i recensori, pretenderanno comunque la copia cartacea. Quando però i libri diventeranno solo immateriali, la promozione sarà soltanto in rete e le modalità della propaganda prenderanno altre strade e, del resto, gli stessi giornali e riviste saranno da molto tempo prima solo su supporti informatici. Come si catturerà allora l’attenzione sul proprio libro? L’esposizione su un bancone, come una qualsiasi altra merce, non ci sarà più. L’acquisto del libro avverrà ancor di più soltanto sulla base di tre fattori: il passaparola; l’obbligo; le recensioni. Già oggi, il passaparola è al primo posto nelle motivazioni d’acquisto dei libri (un passaparola fortemente inquinato dai passaggi televisivi e radiofonici: “il libro di cui si è parlato da…”). L’obbligo significa che un libro viene acquistato perché serve a dare un esame o per un aggiornamento professionale. Le recensioni sono legate a un sempre più compromesso meccanismo di auterevolezza e competenza, che da tempo è entrato in crisi, tanto che non è peregrina la domanda che già oggi molti si pongono: salvo qualche rara e pregevole eccezione, dove sono finiti i critici? La critica passerà in parte nei blog e nelle forme più varie nelle quali si raccolgono “comunità di lettori” (come, ad esempio, aNobii.it, che prende nome dall Anobium punctatum, il “tarlo della carta”).
Le librerie, sparite purtroppo le edicole (privandoci dei simpatici e pazienti giornalai con i quali al mattino si scambiamo quattro chiacchiere), sopravviveranno per qualche tempo. Soprattutto le grandi catene, capaci di forti sconti e maggior controllo sui costi di gestione, esisteranno finché ci saranno dei libri cartacei (anche se il commercio di libri via Internet, come dimostrano i successi di Amazon e IBS, toglierà loro sempre più ossigeno, per ragioni economiche e di comodità). L’agente letterario americano Andrew Wylie ha notato: “Le grandi catene librarie saranno gradualmente rimpiazzate, e non è necessariamente un male: oggi si privilegiano pochi best seller sui libri di sostanza. Le vendite tipo Amazon garantiranno più spazio a libri che oggi vengono schiacciati da titoli di facile presa. Ci sarà maggiore indipendenza e, potenzialmente, la resurrezione di un prodotto di qualità” (“la Repubblica”, 13/I/2010).
I librai potranno riempire i loro negozi di tutte le cose che vogliono, come già sta avvenendo: dalla cancelleria alle cartoline, ai videogiochi e alle musiche, ai pupazzetti e i cioccolatini per gli innamorati, alle bottiglie di vino pregiato, ai thé aromatici, agli oggetti elettronici, ai lavori d’artigianato locale. Ma dovranno sempre ricordarsi di essere dei librai e che le altre merci non possono nascondere i volumi. Un grande pericolo per questa categoria è di diventare degli snob. La vera cultura non si è mai identificata con una setta di pochi eletti. Il libraio che disprezza i suoi clienti non è adatto a fare questo bellissimo mestiere. Un mestiere che va difeso e facilitato perché è un servizio, nel senso più alto della parola: le librerie sono delle farmacie della cultura e della memoria. Ma anche un servizio alla gioia e al piacere. I librai indipendenti, che gestiscono grandi o piccole librerie, dovranno già nell’immediato difendersi dalla concorrenza delle catene monopolistiche accentuando ancor di più questi aspetti dell’identità, essere imbattibili sui servizi offerti al cliente e, soprattutto, dedicare una parte del loro esercizio alla specializzazione: individuando meglio, nella propria zona, i clienti potenziali, attirando in libreria (con presentazioni e altre iniziative) coloro che cercano libri per poter migliorare la propria professionalità. Nel futuro le piccole librerie devono attrezzarsi come poli di servizio multimediali, cercando di essere ancor di più dei luoghi non soltanto di vendita di libri. Oppure trasformarsi in una sorta di preziosi antiquari di modernariato (accanto agli antiquari di libri vecchi che già esistono e fanno buoni affari).
Rimarrà, e anzi si accentuerà con l’affermarsi dell’editoria elettronica, un problema già evidente da diversi anni: la grande sproporzione tra l’offerta e la domanda. La nostra editoria, e le nostre librerie, soffocano per una sovrabbondanza di offerta (in Italia ci sono 2.900 case editrici che pubblicano 61.000 titoli l’anno). E anche se 6 titoli su 10 non vendono praticamente una copia, il numero dei buoni libri stampati è assai elevato. Gli stessi uffici stampa delle case editrici sono costretti inevitabilmente a selezionare tra le proposte (talvolta adeguandosi ai gusti dei giornali o al “peso” dell’autore), sacrificando così parte dei propri titoli. Nemmeno il lettore più bulimico riuscirebbe a star dietro alla produzione libraria odierna. La prospettiva di analisi va capovolta: ci sono troppi libri interessanti e troppi pochi lettori (e anche questi non hanno tempo a sufficienza per leggere tutto). I libri si dividono una fetta già esigua di lettori che, per forza di cose, non se li acquisterà tutti. Così finisce che se ne vendono un pochino di ognuno e gli editori, e gli autori, finiscono col guadagnarci molto meno rispetto alle potenzialità dell’argomento. Ma la ricchezza e varietà dell’offerta è una delle poche caratteristiche positive della nostra cultura. Tentare di limitarla o regolamentarla sarebbe, oltre che impossibile, assolutamente sbagliato. Il compito delle librerie è perciò quello di selezionare secondo un progetto di proposta per il lettore-cliente. Il libraio non deve tenere TUTTO quel che viene pubblicato, ma scegliere quello che a suo parere è il meglio.
Ma chi selezionerà l’offerta oceanica dell’editoria elettronica? Come faranno i lettori a orientarsi e anche difendersi dall’infinità delle proposte che già oggi rende internet un luogo intasato e caotico?
Google (fondata il 27 settembre 1998) ha avuto un grande sviluppo come motore di ricerca e come aggregatore di notizie prodotte da altri. Con 30,1 miliardi di dollari di fatturato (nel 2008) controlla il 60,6 % del mercato dei motori di ricerca. Il suo successo è in parte legato proprio a questo: assembla le news prese dai siti dei vari periodici e li mette a disposizione degli utenti della rete, senza far pagare nulla. Non spende niente per produrre questi contenuti (che vengono pagati da altri) e incassa soldi grazie agli introiti pubblicitari. Oggi Google sta operando una digitalizzazione di massa, a costi sempre più bassi, di migliaia di libri. Ha creato la più grande biblioteca digitale: 10 milioni di volumi (con l’obiettivo di arrivare a 15 milioni).
Il progetto iniziale di Google prevedeva la digitalizzazione dei principali fondi librari delle grandi università statunitensi, escludendo quelli ancora sotto diritti (il cui autore era cioè morto da meno di 70 anni). Poi è passato a digitalizzare tutti i libri non più in commercio motivando questa operazione con la necessità che ogni libro creato nella storia dell’umanità deve restare accessibile al pubblico. Ma 6,5 milioni di volumi sono ancora sotto diritti. Questo ha provocato la protesta di autori ed editori americani, raccolti nella “Open Book Alliance”, che non vogliono veder messo in discussione il diritto d’autore. La protesta è sostenuta da Amazon, Microsoft e Yahoo! che ritengono il progetto di Google come il primo passo per la costituzione di un monopolio della distribuzione digitale. Il 16 novembre 2009, dopo esser giunto a un accordo con l‘Authors Guild e l’Association of American Publischer, Google ha presentato al tribunale di New York un nuovo progetto (Google Books) che prevede che verranno digitalizzati solo i libri in lingua inglese (di editori statunitensi, britannici, australiani, canadesi) e sarà costituito un organismo indipendente (Books Rights Registry) che gestirà il sistema di pagamenti che Google ha messo in piedi per concedere le licenze alle società che vorranno mettere in vendita copie di libri digitali.
L’effetto di questo processo ormai inarrestabile è che verrà trasposta in digitale la gran parte della produzione libraria statunitense e sarà, in pochi anni, offerto un numero enorme di libri elettronici (sono già al lavoro centinaia di giovani e pensionati che “copiano in digitale” i libri analogici). Inoltre, l’accordo tra Google e la Biblioteca Nazionale di Francia, per la digitalizzazione di tutto il suo patrimonio librario, fa immaginare che tra pochi anni, con un piccolo abbonamento, sarà possibile accedere e leggersi comodamente da casa tutti i libri di una delle più grandi, e meglio organizzate, biblioteche del mondo.
Dal punto di vista del copyright, leggere sul proprio apparecchio elettronico un libro non significa “rubarlo” (proprio come accade quando si consulta un libro in biblioteca). Si potrà forse tecnicamente evitare che quel libro possa essere stampato su carta o fatto circolare in rete, ma sarà difficile riuscire a farsi pagare dei diritti sul volume in lettura su un personal computer. E, più in generale, con gli eBook l’idea stessa di copyright verrà stravolta, perchè un’opera immateriale che naviga in una rete immensa è incontrollabile e indifendibile. Il concetto di “proprietà intellettuale” già da tempo, nella Rete, non ha più il senso certo e definibile che aveva in passato. Diventerà perciò insostenibile il diritto su un‘opera lungo, com’è adesso, settanta anni dalla scomparsa dell’autore. Sarà più ragionevole, e in linea con tempi sempre più veloci, tentare di far valere un diritto che vale finchè l’autore è vivo (sperando che questo non porti ad episodi di eliminazione fisica di autori di successo). Gli autori, gli agenti letterari e gli editori dovranno farsene una ragione e cercare di fare di necessità virtù. Con il download illegale non si può far altro che cercare e trovare un compromesso che limiti i danni. Del resto, come ci sono musicisti che accettano di diffondere gratuitamente online le proprie canzoni, perché si sono accorti che questo è un ottimo traino pubblicitario per i loro concerti, non è detto che non si scopra che la diffusione gratuita di libri (moltissimi, per altro, sono spesso ormai introvabili) non costituisca un formidabile strumento per l’aumento del numero dei lettori, l’affinamento dei loro gusti, e quindi la crescita delle vendite librarie.
Quanto ai guadagni sui libri elettronici, al momento Amazon offre soltanto il 50% dei ricavi della vendita di un eBook e pretende l’esclusività e, nel caso dei giornali, riconosce il 30%. Ma la concorrenza e la lotta per l’accaparramento di più titoli possibile, ha portato già Apple a offrire agli editori il 70% del prezzo di vendita e non richiedere l’esclusività.
Tra gli autori americani si sta diffondendo la tentazione del “doppio copyright”: la scelta di dare alle case editrici soltanto i diritti per l’edizione cartacea e vendere quelli per gli eBook, che rendono il doppio, ai siti internet.
Dal punto di vista dei costi, il principale ostacolo alla diffusione in Italia degli eBook, è che oggi i libri su carta pagano l’Iva al 4% e quelli elettronici al 20%. Ma mantenere questa iniqua disparità, invece di render difficile la vita agli eBook, non fa che favorire la pirateria.
Il libro e la lettura sono stati per oltre duemilacinquecento anni, e soprattutto dall’invenzione della stampa (nel 1450), la stessa cosa. Per questo, il libro elettronico è un manufatto rivoluzionario e, per molti, sconcertante (molto di più rispetto, ad esempio, all’iPod per la musica). Al di là delle mutate abitudini di lettura e annotazione, l’ eBook sarà un oggetto vivo, perché mai definitivo. Il libro elettronico può essere sempre corretto e cambiato: sottoposto a un numero infinito di passaggi di revisione e correzione. Per i libri stampati nel passato, che verranno digitalizzati, si tratterà soltanto della possibilità di correzioni di refusi, ed eventuali aggiornamenti bibliografici. Ma per i libri futuri, almeno fino quando saranno vivi gli autori, sarà possibile intervenire per cambiarli in continuazione, anche radicalmente, praticamente senza costi. Muterà quindi, sta già mutando, la natura stessa del libro. Il libro cartaceo è un’opera chiusa, quello elettronico è aperta e modificabile.
Il libro elettronico muterà profondamente lo statuto del Testo e dell’Autore. Si realizzerà ciò che auspicò Roland Barthes nella sua lezione inaugurale alla Cattedra di Semiologia letteraria al Collège de France (7 gennaio 1977): il ritorno al Testo in quanto emblema del de-potere e capace di eludere all’infinito la parola gregaria (quella che si aggrega), anche quando cerca di ricostituirsi in lui. Il Testo spinge sempre più lontano da sé, ricaccia altrove, verso un luogo non classificato. Secondo Barthes è finito il mito dello scrittore depositario di tutti i valori superiori: la letteratura stessa è desacralizzata. Non è più “custodita”, grazie alla fine di quel personaggio che ha “infestato” l’ultimo secolo: lo scrittore depositario di tutti i valori superiori, il detentore della parola gregaria, il carceriere della parola. L’eBook permetterà di tenere un discorso senza imporlo.
Già da diversi anni, con le ricerche e la produzione di ipertesti, la natura dei libri è cambiata: la differenza tra ciò che spetta all’autore dell’opera e ciò che va attribuito a coloro che la leggono e interpretano si è fatta difficile da afferrare. L’ipertesto permette di aprire un numero quasi infinito di link: collegamenti con altri testi, immagini e filmati, musiche. Il lettore non è più passivo, ma interviene attivamente sul testo, di fatto modificandolo. La scrittura e la lettura diventano un fatto collettivo che coinvolge molti attori e strumenti espressivi. Il rapporto tra l’autore e il lettore diviene paritario e, sotto molti aspetti, egualitario. Anche il lettore è, in un certo senso, autore. Il contenuto diviene una nozione incerta e ambigua rispetto alla staticità della forma del libro cartaceo.
E’ più facile immaginare il futuro dei libri analogici se si fa tesoro dell’esperienza, già sotto i nostri occhi, dei giornali e delle riviste, e della loro rapida evoluzione.
Il giornali e le riviste, in forma cartacea, non sono in crisi perché la difficile congiuntura economica ha tagliato drasticamente gli introiti pubblicitari (che sono la loro ragione di vita, dato che il prezzo che si paga per acquistarli in edicola copre soltanto una minima parte del costo di produzione). Essi sono destinati ad estinguersi in pochi anni perché il sistema dell’informazione e dell’approfondimento delle notizie passerà sempre di più su altri canali più economici e efficaci. Se il mezzo nuovo è l’on-line, il nuovo messaggio sarà una combinazione di parole, suoni e immagini. Radio, tv e giornali non spariranno, ma la rivoluzione in corso avrà su di loro conseguenze maggiori di quella di Gutemberg. Sempre di più si parlerà di social-media. I giovani nati con Internet si fidano infatti solo dei loro contatti personali. Sicchè, per un editore -come ha sostenuto Roberto Civita, proprietario del Grupo Abril, il più grande conglomerato mediatico dell’America Latina- il dialogo non è più coi lettori, ma coi lettori che dialogano tra loro, e questo cambia la dinamica dell’impresa. Il giornalista deve essere multimediale, tenere un blog, avere un sito, usare podcast e videofonino.
Su Internet si hanno, per lo più gratuitamente, le notizie e i commenti che si desiderano. Addirittura in sovrabbondanza rispetto alle necessità e le possibilità di fruizione. Se poi il lettore si trova la strada sbarrata da richieste di pagamento ha mille modi per aggirarle. Primo fra tutti: cercare l’articolo desiderato su Google. E i tentativi di porre un argine alla fruizione gratuita delle proprie notizie e articoli (ad esempio, attraverso un’alleanza tra il colosso dell’editoria di Robert Murdoch e la Microsoft di Bill Gates che sottrarrebbe i materiali al motore di ricerca Google e imporrebbe pagamenti agli utenti della Rete) sono difficili da attuare. L’accordo raggiunto agli inizi di dicembre del 2009, tra Google e Murdoch prevede la limitazione di accesso massimo a cinque articoli leggibili gratuitamente attraverso Google. Con il metodo “first click free”, dopo cinque accessi all’editore sarà possibile richiedere un modesto pagamento. Per l’editore è comunque una considerevole perdita economica e mille sono e saranno i modi per aggirarlo. Google con il suo servizio, che porta pochi guadagni immediati agli editori, regala però ai giornali 100 mila click al minuto. Se si dovesse arrivare a una rottura tra editori di contenuti e aggregatori (togliendo, ad esempio, la possibilità di utilizzare le loro testate), la sovrabbondanza di notizie che circola in Rete permetterebbe agli aggregatori (Google in testa) di funzionare comunque e toglierebbe agli editori uno strumento di diffusione. E’ difficile andare contro la natura e la filosofia di Internet: l’informazione gratuita. Chiunque tenti di far pagare ciò che passa in Rete viene o rifiutato o emarginato o violato.
I giornali del futuro saranno gratuiti (come la “freepress”) e completamente digitali. Oltre alla possibilità di leggerseli sul computer o sul telefono cellulare si potrà scaricarli su un supporto simile al quotidiano, arrotolabile e piegabile, collegato a una chiavetta che permetterà di leggere, scegliendo con il tocco di un dito, tutti i giornali del mondo, aggiornati continuamente. Il prototipo esiste già, Skiff, del gruppo editoriale Hearst: un foglio d’ acciaio avvolto in un guscio di vetro flessibile, grandezza A4 e pesante meno di 500 grammi. E sarà possibile integrare, e approfondire, le notizie con finestre su immagini, filmati, materiali audiovisivi d’archivio, ancor meglio di come si fa già oggi col computer. Saranno gratuite le notizie, ma a pagamento (o con abbonamento) gli approfondimenti e i contenuti esclusivi (freemium). I giornalisti migliori dovranno fare squadra e associarsi in una sorta di agenzie di servizi che proporranno inchieste, ricerche, reportage. Per poterle fare dovranno richiedere dei finanziamenti ai propri lettori. Se, ad esempio, per un’inchiesta sul funzionamento della sanità in una certa regione occorrono un tot di euro (comprensivi delle spese e del guadagno dei giornalisti impegnati), ai lettori interessati verrà richiesto di pagare tot centesimi a testa e avranno così la possibilità di leggere con una settimana di anticipo l’inchiesta, scaricandosela con una apposita password. Tutta l’informazione, al di là delle notizie flash, verrà pagata direttamente. Ma gli aggregatori, come si è visto, utilizzano contenuti prodotti da altri. Si diffonderanno quindi ancor di più dei portali parassitari che metteranno a disposizione a poco prezzo (o anche gratuitamente, perché guadagneranno con la pubblicità) le inchieste a pagamento altrui. Non sarà facile contrastarli e la pubblicità non potrò garantire, salvo poche eccezioni, la produzione di contenuti, perché è molto frazionata e polverizzata. Il valore e il prezzo di queste inchieste si baserà, oltre che sui contenuti, sulla rapidità e l’esclusività che riusciranno ad avere. Negli Stati Uniti ci sono già inchieste finanziate dai cittadini, ma non è detto che in Europa la cosa funzioni: il giornalismo finanziato da una comunità potrebbe non esser sufficiente a tenere in vita dei giornali seppur drasticamente ridotti negli organici e nei costi di produzione. E questo non sarà un bene, non soltanto per le maestranze che ci lavorano, ma perché i giornali aiutano a tenere in vita la Comunità: sono l’ossatura dell’opinione pubblica che è la base del controllo democratico sul potere politico. La Rete dovrà sopperire, ancor più di quanto accada oggi, a questa mancanza. L’Agorà -dove si fa controinformazione, critica, denuncia e si discute- sarà Internet, che è auspicabile dia nuovi canali di espressione ai cittadini a rischio di afonia e alienazione.
Il “profeta della Rete” Nicholas Negroponte ha sul futuro dei giornali idee molto chiare: “La carta sparirà, prima o poi. Non sparirà il giornalismo d´inchiesta o quello investigativo, troveranno nuovi supporti sui quali basare le proprie fortune. Un giornale può essere ovunque, anche sullo schermo di un computer. (…) Resta un grande problema di autorevolezza e di veridicità. E’ il lettore che decide a chi credere. La differenza tra un blogger e un giornalista, oggi, è che il secondo è un professionista pagato e il primo no. Ma anche questo cambierà. La realtà è che siamo solo all’inizio di un percorso nuovo e lungo. E che durante questo percorso emergeranno delle realtà nuove e diversamente autorevoli. Le vecchie istituzioni culturali si sono consolidate in un tempo molto lungo, non si può chiedere alla realtà della Rete di creare istituzioni nuove e credibili in tempi così brevi” (“la Repubblica”, 15/I/2010).
Per i giornali e le riviste, come per i libri, c’è il pericolo che il mezzo cambi il messaggio. Anche i libri elettronici potranno avere dei “finanziamenti anticipati” per essere prodotti. E persino i romanzi si potranno giovare di sottoscrizioni anticipate a fronte della proposta di un’idea (come accade già per le sceneggiature dei film). Ma nei prossimi anni ci troveremo difronte a una mutazione radicale. Dopo la scomparsa di giornali e riviste cartacee, sarà la volta dei libri di scuola e manuali di studio. Poi tutti gli altri libri, con la sola eccezione forse dei libri illustrati, che sono quelli destinati a subire meno danni dalla digitalizzazione dei volumi (infatti è difficilmente immaginabile che si possa apprezzare, ad esempio, una monografia su Caravaggio, su un supporto elettronico: il sacrificio delle immagini sarebbe troppo grande e la resa dei colori, almeno fino ad oggi, seppur ad alta definizione, incomparabile rispetto a quella cartacea).
Avanzerà una generazione di persone abituate a lavorare con libri immateriali e che non avrà nessuna nostalgia della carta per il semplice motivo che non avrà avuto l’abitudine a maneggiarla. Già la prossima generazione studierà quasi esclusivamente su supporti informatici. Per gli studenti il risparmio economico sarà grande e ci guadagnerà anche la salute (fine delle scoliosi da zaini troppo pesanti). I libri elettronici renderanno finalmente possibile la leggibilità di tutti i libri. Infatti con gli eBook (come già nello schermo del computer) i caratteri del testo si possono ingrandire e scurire a piacimento. Oggi, ad esempio, la maggior parte delle edizioni economiche sono praticamente illeggibili, essendo la fotografia delle edizioni maggiori rimpicciolita per stare nella gabbia dei tascabili. Un corpo 8 o 9 incerto e nebuloso, anche perché stampato (sempre per ragioni di risparmio) su carte di poco pregio. I lettori comprano il titolo perché prestigioso e quando aprono il volumetto debbono inforcare la lente d’ingrandimento.
Il successo dei libri elettronici avrà conseguenze visibili persino sugli scaffali delle nostre abitazioni, da anni prive ormai di dischi, con sempre meno CD e delle obsolete videocassette. L’elettronica svuoterà malinconicamente le case (e soprattutto le biblioteche) ma, risparmiando sulla cellulosa, lascerà spazio alle foreste (nel mondo oggi si vendono circa tre miliardi di libri l’anno, il che comporta, mediamente, l’abbattimento di 9.316.770,1 alberi, se si considera un libro lungo mediamente 250 pagine).
La sfida alla quale sono chiamati tutti coloro che, a vario titolo lavorano nell’editoria, è quella della qualità e del rigore per evitare che i lettori vengano risucchiati in un gorgo indistinto di materiali. L’unico modo per salvare la Cultura è quello di migliorare e raffinare la qualità dei contenuti e delle forme. Bisogna produrre testi e libri sottoposti ad attente cure redazionali, con una grande attenzione alla lingua (che non dovrà mai scadere nella sciatteria e nella banalità) e, nel caso, alla precisione delle note e all’attendibilità dei riferimenti bibliografici.
Vincerà chi saprà e vorrà produrre migliori libri elettronici e di alta qualità editoriale (nel vecchio senso del termine). Infatti, finiti anche i libri nell‘immaterialità del Web, il rischio è che si smarrisca l’autorevolezza dei testi, frutto di una selezione basata su una valutazione estetica o scientifica. La rete è per sua natura “democratica”, ma non tutto quello che vi si trova ha lo stesso valore. Riuscire a selezionare sarà sempre più complicato e difficile, a fronte di una proposta praticamente infinita e indistinta. Per questo sarà importante per il fruitore poter andare a colpo sicuro, avere una buona dose di certezza che il testo che sta per leggere sia affidabile sotto tutti gli aspetti.
I fattori decisivi per il futuro commerciale del libro saranno ancora, come sempre, le dimensioni e il prezzo. Come Voltaire aveva notato: “Venti volumi in folio non faranno mai le rivoluzioni: sono i piccoli libri portatili, da trenta soldi, che sono da temere. Se il Vangelo fosse costato mille e duecento sesterzi, la religione cristiana non avrebbe mai preso piede”. I libri elettronici non avranno praticamente dimensioni (se non lo spazio che i byte occupano nella memoria del lettore, del computer o in rete), saranno facilmente trasportabili e consultabili ovunque e costeranno pochissimo.
Rimarranno forse “libri cartacei” quelli che hanno uno loro sacralità intrinseca. In alcune lingue “Libro” (con la maiuscola) è soltanto la Bibbia o un altro testo religioso. Tutti gli altri sono “libretti”. Il Libro è sacro. E’ difficile immaginare che si leggerà e commenterà, ad esempio, la Bibbia su un supporto elettronico, anche se Internet è un formidabile strumento per diffondere le parole sacre, o avvicinare le genti alle religioni. La Oxford University Press potrà, ancora per un po’, continuare tranquillamente a fare i soldi con le Bibbie di San Giacomo stampate su carta!
Difronte a una rivoluzione radicale, che renderà i libri immateriali e per certi aspetti incerti, non più chiusi e definitivi, sarà bene badare a salvare l’idea del libro. Ed è perciò utile riflettere sulla proposta di una sorta di “etologia della libro e della lettura” e riprendere le considerazioni che il sociologo e filosofo Ivan Illich fece a partire da un libro capitale come il Didascalion (1128) del teologo e mistico Ugo di San Vittore, seguace di Sant’Agostino. In the Vinegard of the Text (1991; trad. it. Nella vigna del testo, Cortina, Milano 1994) mette a fuoco il momento nel quale, dopo secoli di lettura cristiana, improvvisamente la pagina scritta si trasformò, da partitura per pii borbottanti, in testo organizzato otticamente ad uso di pensatori logici. Prima si leggeva in pubblico e a voce alta; poi, leggere consistette nel formare, in un ambiente isolato e silenzioso, la mente sulla base di regole e precetti tratti da libri. Trecento anni prima che entrassero in uso i caratteri mobili, la pagina scritta si trasformò da spartito in testo, permettendo di immaginarlo come qualcosa di distaccato dalla realtà materiale della pagina. Nacque così il “modo libresco” di considerare gli scritti che per otto secoli è stato il fondamento e il titolo di legittimazione delle istituzioni scolastiche occidentali. Vent’anni fa Illich poteva già affermare che si era giunti alla conclusione dell’era del libro: “Oggi il libro non è più la metafora fondamentale dell’epoca; il suo posto è stato preso dallo schermo. Il testo alfabetico non è che uno dei tanti modi di codificare qualcosa che viene ora chiamato messaggio (…) Assistiamo alla dissoluzione della tecnica alfabetica nel miasma della comunicazione”.
Mai come in questo momento è necessario guardare lucidamente avanti. Senza trascurare di ragionare sui pericoli di un “totalitarismo informatico” (cybercollettivismo) che potrebbe confondere tutte le informazioni e i libri elettronici in un magma indistinto, dove non è più possibile capire l’identità degli autori e valutare le differenze qualitative. L’unico valore rischia di diventare la quantità, perché in effetti l’algoritmo di motori di ricerca online come Google presenta i risultati della ricerca di una parola-chiave secondo un ordine che è quello dei siti più frequentati (cioè quelli di maggior successo). La Rete, secondo alcuni, può cadere preda di una falsa democrazia controllata dai violenti (“maoismo digitale”). C’è chi come Jaron Lanier, che è stato uno dei pionieri della Rete e Second-Life, si dichiara profondamente deluso: “Ai tempi della rivoluzione internet io e i miei collaboratori venivamo sempre irrisi, perché prevedevamo che il web avrebbe potuto dare libera espressione a milioni di individui. Macché, ci dicevano, alla gente piace guardare la tv, non stare davanti a un computer. Quando la rivoluzione c’è stata, però, la creatività è stata uccisa, e il web ha perso la dignità intellettuale. Se volete sapere qualcosa la chiedete a Google, che vi manda a Wikipedia, punto e basta. Altrimenti la gente finisce nella bolla dei siti arrabbiati, degli ultras, dove ascolta solo chi rafforza le sue idee. (…) Un coro collettivo non può servire a scrivere la storia, né possiamo affidare l’opinione pubblica a capannelli di assatanati sui blog. La massa ha il potere di distorcere la storia, danneggiando le minoranze, e gli insulti dei teppisti online ossificano il dibattito e disperdono la ragione” (J. Lanier, You are not a gadget. A manifesto, Alfred Knopf, New York 2010).
E difficile però non vedere come internet e i libri elettronici favoriscano e favoriranno la conoscenza come bene comune. E’ questo l’argomento e il titolo del volume di Charlotte Hess ed Elinor Ostrom, vincitrice del Premio Nobel per l’economia nel 2009 (Understanding Knowledge as a Commons. From Theory to Practice, MIT, Mass. 2006; trad. it. Bruno Mondadori, Milano 2009). Le autrici affermano la necessità di considerare la conoscenza come bene disponibile per tutti gli esseri umani, al pari dell’acqua o dell’aria. Con la differenza fondamentale che la fruizione della conoscenza da parte di un soggetto non ne limita l’utilizzo da parte di un altro. Il dibattito sulla conoscenza come bene comune è molto vivace negli Stati Uniti, e dura ormai da alcuni anni. Dall’esito di tale dibattito dipende non poco l’assetto della società di domani. I problemi dell’accesso all’informazione, del digital divide, del copyright sono tutti legati a questo tema e sono decisivi per l’evoluzione delle società informazionali.
Molti di quelli che oggi parlano dei libri elettronici sentono alla fine il bisogno ribadire che “però sono diversi dai libri di carta”. E’ come se all’invenzione dell’automobile avessimo commentato che i cavalli erano un’altra cosa.
APPENDICE
La biblioteca di mio padre
Mio padre amava molto i libri. Una passione ereditata da suo padre: un baffuto commerciante e piccolo proprietario terriero di Floridia (vicino a Siracusa), che sapeva la Divina commedia a memoria e declamava, durante i pranzi della numerosa famiglia, brani dell’Orlando furioso e di altri poemi cavallereschi.
Quando si trasferì a Firenze per terminare gli studi liceali e fare poi l’Università, mio padre spendeva gran parte dei soldi, che gli venivano inviati dalla Sicilia, in libri. Alla metà degli anni Trenta, aveva venticinque anni, la sua biblioteca era talmente ricca e grande che fu costretto a cercarsi un’altra camera in affitto perché i volumi non c’entravano più. Era diventato amico dei principali librai di Firenze, soprattutto degli antiquari e dei rivenditori di volumi usati, e trascorreva con loro molto del suo tempo libero. La cosa che mi ha sempre colpito è la grande varietà di interessi che dimostravano le sue scelte. Oltre ai libri di storia (e di legge, perché, per ragioni ereditarie, dovette prendersi anche una laurea in Giurisprudenza) possedeva molti volumi d’arte, architettura, filosofia, economia. Ma soprattutto i romanzi e la poesia erano le sue grandi passioni (tanto da far sospettare che, se avesse potuto -cioè: se il suo burbero padre non si fosse opposto- avrebbe studiato volentieri, o si sarebbe dedicato, alla letteratura).
Dalla Germania -dove era andato con una borsa di studio e tornato alla vigilia dell’avvento del Nazismo- riportò cinque bauli colmi di libri rari. Quasi tutti questi volumi (soprattutto quelli in lingua straniera) andarono perduti durante la guerra. Parte furono bruciati dalla moglie di suo fratello (timorosa che tra di essi potesse esserci qualcosa di compromettente) e un buon numero furono sequestrati dalla polizia fascista nella sua camera d’affitto, durante una perquisizione, dopo l’8 settembre del 1943.
Su tutti i fronti dove mio padre combatté (Albania, Macedonia, montagne sopra Bergamo, dove fu comandante di una banda partigiana), ebbe sempre problemi di “soprappeso”: il suo zaino era ogni volta troppo ingombrante, a causa dei libri dai quali non si separava mai. Una sola volta, con grande dolore, dovette farlo, fuggendo dalle montagne della Grecia, a causa di un improvviso attacco dei partigiani locali. Chissà cosa avranno pensato quei coraggiosi greci quando, tra le cose abbandonate tra la neve di quel campo italiano, trovarono decine di volumi dei poeti classici, in greco antico ?!
Mio padre raccontava spesso che, durante le lunghe giornate trascorse nascosto in montagna, nell’ultimo anno di guerra, la compagnia dei suoi libri, che era riuscito a portare con sé, gli permise di non impazzire, sopportando la tensione e la paura di essere catturato dai tedeschi. Quando i partigiani liberavano una città, la sua prima preoccupazione era quella di riaprire la locale biblioteca, perchè quello gli sembrava il primo atto del ritorno alla vita normale.
Dopo il 1945 dovette ricominciare tutto da capo. Tra servizio militare, guerra d’occupazione e guerra partigiana se ne erano andati via otto anni della sua vita (quelli, forse, più importanti per mettere a frutto gli studi e le letture fatte). Quasi tutti i suoi libri e gli appunti erano spariti. Con i pochi soldi che aveva, riprese a comprar libri, anche se era penetrato in lui (come in molti che avevano conosciuto le tragedie della guerra) un certo senso di precarietà e un bisogno di leggerezza. Frequentava perciò assiduamente le biblioteche. Finì che lo nominarono direttore delle biblioteche comunali fiorentine.
Quando nostra madre lo conobbe ebbe la giusta impressione che, solo tra tutti quei volumi stesse come “un topone nel formaggio”. La sua stanza in casa, alla quale era vietato l’ingresso a noi bambini, era completamente foderata di libri, ordinati in più file, che davano un senso di tranquillità e di calore. Da piccoli ci portava a giocare ai giardinetti: sempre con un libro in una mano e, nell’altra, un limone (che, ahimé, serviva come disinfettante nel caso ci sbucciassimo un ginocchio). Anche quando eravamo più grandi, non ci prestava volentieri i suoi libri: erano una parte di lui, della quale si privava con difficoltà. Preferiva comprarci tutti i volumi dei quali avevamo bisogno o desiderio, anche se lui già li possedeva (ci aveva aperto un conto nella Libreria Feltrinelli).
In salotto stava seduto in poltrona: ascoltava la musica alla radio e aveva la faccia sempre nascosta dietro un libro. Da dietro le copertine, come in un quadro di Magritte, emergevano delle pastose e profumate volute di fumo di una marca di sigarette inglesi che fumava in continuazione (le “Senior Service”).
Ogni nuovo libro che entrava in casa (persino quelli di scuola) veniva da lui sfogliato, valutato e persino… annusato. E’ questo un vizio che ho ereditato. Ciascun libro ha un suo proprio odore (inchiostro, colla, carta): più di una volta, in libreria, siamo stati sorpresi, con nostro padre, nell’atto abbastanza buffo e inconsueto di immergere la faccia in mezzo alle pagine di un volume per assaporarne il profumo.
Anche sotto questo aspetto, ci ha trasmesso l’amore per i libri, come lo trasmise ai suoi studenti dell’Università di Genova. Mi capita ogni tanto di incontrarne qualcuno che ricorda prima di tutto questa grande passione e rispetto per i libri che il professor Cataluccio aveva insegnato loro.
Quando compì ottanta anni, nonostante le nostre scaramantiche proteste, volle che parlassimo di che fine avrebbero fatto i suoi libri, una volta che non ci fosse stato più: “Dividetevi fraternamente i volumi che vi interessano e quelli di storia più generali donateli alla Biblioteca di Floridia” (quelli più specialistici, sulla storia indiana e araba, sono andati alla Biblioteca della Fondazione Feltrinelli a Milano). Amava tantissimo il suo paese natale e i suoi abitanti. Ci tornava ogni anno d’estate e per lui era una vera boccata d’ossigeno che gli permetteva finalmente di leggere in tranquillità, seduto nel terrazzo della zia con una granita di mandorle accanto, tutti i libri che desiderava. Anche per questo aveva sempre una grande nostalgia della sua colta terra, dei suoi colori e odori.