L’altra mattina, su un taxi milanese. Passiamo di fianco alla Questura, e sotto il sole già rovente c’è una fila di immigrati stranieri che si snoda per due isolati. “Guardi che roba!” commenta il taxista, scuotendo la testa. Io mi preparo al solito sfogo xenofobo. Invece, con mia grande sorpresa, quello continua: “Che vergogna, li trattiamo come bestie. E gli impiegati della questura sono pochi, svogliati, mal pagati, sempre incazzati, e se la prendono con i più deboli che non ne possono niente, e vengono qui solo per cercare un lavoro onesto”. Poi passa a parlarmi del figlio, che ha studiato le lingue, ha fatto un master, è stato preso come co-co-pro da una famosa agenzia di pubblicità. “Si aspettava che un bel giorno lo assumessero, invece gli hanno proposto la partita Iva, ma lo pagavano troppo poco. E lui mi ha detto: ‘Papà, preferisco fare il taxista come te, almeno sono autonomo davvero’. E così ha fatto. Mia moglie è disperata. Tutti quegli anni buttati via, tutti i sacrifici che abbiamo fatto per dargli un titolo di studio, si rende conto? Che razza di paese è questo?”. Un paese per vecchi, caro amico, governato da un vecchio coi capelli trapiantati, che pensa agli affari suoi e non al futuro dei giovani. Un paese dove regna le “demeritocrazia” e dove conta più essere furbi che istruiti. Dove si invoca la libertà di impresa non per aiutare i nuovi Marconi a inventare la radio, ma per costruire villette a schiera nelle aree protette! Ecco di cosa dovrebbero occuparsi gli intellettuali, ho pensato. Invece stanno lì a disquisire sul premio Strega, o a scrivere libri sul conformismo degli intellettuali. Cioè su se stessi e sul loro microcosmo asfittico, accusandosi a vicenda di non capire dove va il mondo, e dove dovrebbe andare.