E alla fine anche al microcredito iniziò a piacere il profitto. Vikram Akula, fondatore del gigante indiano dei microprestiti Sks, si è messo a dare i numeri: 182 milioni di dollari rastrellati dalle società di private equity (tra cui Sequoia Capital e Vinod), quasi 16,8 milioni di azioni esistenti rimesse sul mercato, 7,4 milioni di titoli societari emessi ex novo. Il lancio dell’offerta pubblica iniziale (Initial public offering, Ipo) che dovrebbe portare sul mercato Sks è ormai alle porte. Dopo mesi di rumors, infatti, il traguardo sembra davvero imminente: settimane (si era parlato addirittura di questa), forse giorni. Per l’industria microfinanziaria dell’India è un momento di grande eccitazione. L’ingresso di investitori del calibro di Citigroup e Credit Suisse con la conseguente trasformazione di Sks in una vera e propria società for profit segna infatti quel passo in avanti (o indietro, a seconda dei punti di vista…) che promette di rivoluzionare il settore. Ma mentre l’attesa sale sempre più frenetica alcuni analisti hanno già lanciato a gran voce il loro allarme: la microfinanza indiana assomiglia sempre di più ai “vecchi” mutui americani e rischia di procedere senza freni verso il baratro dell’inevitabile default.
«Negli Stati Uniti le banche concedevano muti pari al 120% del valore delle abitazioni, nell’India rurale la gente ottiene prestiti equivalenti al 150% del valore delle loro imprese» ha dichiarato a Businessweek la direttrice della società Micro-Credit Ratings di New Delhi Sanjay Sinha. Le condizioni per una bolla speculativa, insomma, sarebbero evidenti e le cifre lo confermerebbero. Si tratta, per altro, di un allarme già emerso in passato quando le valutazioni, però, apparivano più teoriche che altro. Nel settembre 2009 la “denuncia bolla” del Wall Street Journal aveva attirato su di sé molte critiche. Tesi superficiale e prevenuta, dicevano alcuni. Analisi lucida e inquietante ribattevano altri. A distanza di mesi, però, l’idea che prestiti facili, assenza di controllo, tassi elevati e boom degli investimenti della finanza tradizionale abbiano gonfiato oltremisura il settore sembra trovare nuove conferme. Paesi come Nicaragua, Pakistan, Bosnia e Marocco hanno già visto impennare i propri tassi di insolvenza, passati da un modestissimo 1-2% a una media del 10%. E adesso, alla vigilia della tanto attesa Ipo di Sks, cresce il numero di quelli che pensano che presto toccherà anche all’India. Perché l’aspetto ipertrofico il settore indiano sembra averlo ormai assunto in pieno.
Il mercato indiano dei microprestiti ha ricordato un paio di mesi or sono Vijay Mahajan, presidente della locale lobby Mfi Network, vanta una crescita annua del 75% ma anche, occorre aggiungere, un’enorme potenzialità di sviluppo tuttora inesplorata. È in questo contesto che un ambizioso come Vikram Akula ha potuto espandere senza ostacoli il business della sua Sks. Quella che nel 1997 era stata fondata come semplice ong ha infatti visto il suo ammontare prestiti passare dai 21 ai 790 milioni di dollari tra il marzo 2006 e il settembre 2009. Ma le ambizioni di Sks non sono tutto. Ad alimentare i timori di una sempre più diffusa insolvenza capace di svelare la verità sulla bolla facendola semplicemente scoppiare ci sono poi le crescenti perplessità sull’impennata dei tassi di interesse.
Da sempre gli operatori del microcredito sono costretti ad applicare tassi che, se caricati dalle banche, sarebbero definiti senza esitazione “da usurai”. Il settore si difende sottolineando gli enormi costi gestionali e ribadendo la diffusa sostenibilità del modello (leggasi bassa insolvenza). Di recente tuttavia il fenomeno è sembrato andare fuori controllo. La crescita della partecipazione dei privati (che nel 2008 hanno superato i governi nella classifica dei finanziamenti al settore) ha prodotto un’impennata dei tassi apparsa a molti come una conseguenza del tutto logica. Contrariamente ai tradizionali prestiti bancari, infatti, le operazioni di microcredito non sono soggette a limiti sul costo del denaro, motivo per il quale gli investitori potranno sempre contare sull’opportunità di caricare legalmente interessi esorbitanti. Esempi già noti (come quello della società messicana Compartamos) confermano la teoria e in fondo c’è poco di cui stupirsi. Alzare arbitrariamente il costo del denaro è il modo più rapido di garantire nuovi profitti. Un obiettivo, quest’ultimo, destinato a mantenersi basilare. Almeno fintantoché sull’interesse dei poveri prevarrà quello degli azionisti.