Estratto da La colata. Il partito del cemento che sta cancellando l’Italia e il suo futuro di Ferruccio Sansa, Andrea Garibaldi, Antonio Massari, Marco Preve, Giuseppe Salvaggiulo – a cura di Ferruccio Sansa. Collana: Principio Attivo pp. 544 – euro 16,60
(dal capitolo “Milano: Ligresti alla conquista del Parco Sud”)
Il Duomo e la cascina
Il Duomo, certo. La Madonnina. Ma il simbolo della Milano di oggi è anche un altro: cascina Campazzo. Nessun altro luogo meglio di questa vecchia costruzione di campagna, stretta fra i palazzi come tra le morse di una tenaglia, racchiude lo spirito di una città che si sta svendendo al cemento. Che ettaro dopo ettaro sta perdendo ogni spazio verde e affida al mattone le sue prospettive di sviluppo.
Milano oggi è un cantiere, il panorama muta ogni giorno. Nuovi grattacieli cambiano lo skyline sotto lo sguardo confuso degli abitanti, le gru fanno ormai parte del paesaggio. Si costruisce, prima ancora di riqualificare una città che avrebbe tanto bisogno di rimediare ai danni della crescita selvaggia del dopoguerra e degli anni della Milano da bere (e da mangiare).
No, questo non è – come qualcuno vorrebbe far credere – un atto d’accusa contro l’architettura e contro l’innegabile necessità che le città debbano mutare. Qui si mette in discussione l’equivalenza tra sviluppo e cemento, si punta il dito su progetti che rischiano di compromettere definitivamente la qualità della vita dei cittadini.
Le cronache milanesi parlano di una miriade di grandi opere: ecco allora sorgere – tra le proteste dei comitati e l’approvazione delle amministrazioni sempre pronte a sostenere i costruttori – i grattacieli di CityLife, poi il megainsediamento di Santa Giulia impantanato per le vicissitudini del gruppo Zunino, e ancora Porta Garibaldi, la nuova sede della Regione con cui Roberto Formigoni vuole lasciare un segno ai posteri del suo passaggio. Per non parlare del Pir di Ligresti, della nuova sede del Comune, del progetto per l’Isola (quel quartiere che, appunto come un’isola, resisteva in mezzo al mare di nuove costruzioni). Fino alle Varesine. Decine di nuovi edifici e di milioni di metri cubi, tutti griffati da grandi progettisti: Hadid, Libeskind, Isozaki, Pei, Cobb, Boeri e lo studio Kohn, Fox e Pedersen. Architetti che, viene il dubbio, sono stati usati talvolta come paravento per far passare una sola cosa: il cemento.
Ma ci vorrebbe un libro a parte per raccontare la fame da calcestruzzo della Milano di oggi. Per descrivere il groviglio di società e di conflitti di interesse che nella patria del Cavaliere sono ormai liquidati con una scrollata di spalle. Per esempio il caso della Expo 2015, la società che dovrà gestire miliardi di euro pubblici per la costruzione di strade, residenze e padiglioni in vista dell’esposizione universale del 2015. Ebbene, la società è guidata da Diana Bracco, già presidente degli industriali milanesi, che ha ottenuto dal Comune di Rho, dove ha sede la fiera, il cambio di destinazione d’uso di un’area industriale di proprietà del suo gruppo per costruirvi un albergo e un centro commerciale. No, non possiamo raccontare tutto. Non possiamo ricostruire la battaglia senza quartiere che in questi mesi si sta combattendo intorno al Pgt (il piano di governo del territorio) che il Comune di appresta ad adottare. Meglio concentrarsi su una storia che ne racchiuda tante altre. Che sia il simbolo di una Milano che ha deciso di costruire sacrificando la qualità della vita dei suoi abitanti. Qualcuno ci guadagna, molti ci perdono. Il danno sarà definitivo, perché la capitale morale d’Italia si sta mangiando i suoi ultimi spazi liberi.
Allora ecco il Parco Sud, che per i milanesi è l’ultimo polmone verde della città e per i costruttori la frontiera da superare per costruire. Un battaglia che non è soltanto urbanistica. Qui sono in gioco l’identità stessa di Milano, le sue radici umane e culturali che affondano anche nella campagna.
Come tutte le storie, questa è prima di tutto la vicenda di due uomini: Andrea e Salvatore. Andrea Falappi, cinquantotto anni, è un agricoltore; da quando è nato ha trascorso ogni giorno della sua vita al Campazzo. Intanto, senza che quasi se ne accorgesse, tutto gli cambiava intorno: l’orizzonte con i palazzi che si facevano ogni giorno più vicini, l’aria in cui all’odore del grano si sostituiva lentamente quello acre della città, i colori sempre più tendenti al grigio. Insomma, Andrea è nato in campagna e oggi si ritrova in città, come se la sua cascina, sempre uguale, con i tetti di tegole e coppi, si fosse trasferita in centro. E invece no, era la metropoli che si muoveva, che avanzava.
Salvatore ha settantotto anni e altri non è che Ligresti: un cognome diventato, soprattutto a Milano, un sostantivo. Significa il re del mattone, l’uomo che con i suoi palazzi ha modificato il panorama di Milano.
Difficile immaginare due vite tanto diverse: una spesa a coltivare una manciata di ettari di campo, l’altra trascorsa a sognare e realizzare palazzi immensi, a contare miliardi come fossero spiccioli. Eppure le parabole di Andrea e Salvatore oggi si incontrano proprio intorno alla cascina. Già, perché il Campazzo, la cascina del Settecento dove Falappi vive da quando è venuto al mondo, nel 1984 è stata comprata dalla Altair, gruppo Ligresti, che l’ha acquistata dall’Ente comunale assistenza Milano. Un’inezia, una briciola nell’immenso patrimonio immobiliare dell’imprenditore di Paternò, se non fosse che, appunto, questa fattoria nel cuore del Parco del Ticinello è diventata un simbolo: da una parte c’è Andrea che si ostina a coltivarne i campi, dall’altra c’è Salvatore che ogni due mesi gli manda gli ufficiali giudiziari con uno sfratto esecutivo. E da anni finisce sempre nello stesso modo: proteste, sollevazioni popolari, rinvii.
«Non si può vivere così, è un incubo, sempre con la minaccia dello sfratto che ci pende sopra la testa. Questa vita da precari ti consuma» sospira Andrea dopo l’ennesimo assalto respinto, e sembra quasi sul punto di cedere. Ma poi no, continua la sua battaglia che ormai ha coinvolto comitati, associazioni, gente del quartiere. Centinaia di persone che Andrea richiama aprendo le porte della sua cascina a mezzo mondo. Bisogna andarci alle sue feste, bisogna provare il disorientamento di sentirsi in campagna mentre sei a quattro chilometri dal Duomo di Milano.
Tanti, tantissimi si sono mobilitati per il Campazzo e chissà se lo fanno perché pensano seriamente di vincere o perché vogliono partecipare a una nostalgica battaglia di cui si conosce già l’esito: alla fine Andrea – piegato dagli sfratti esecutivi o dalla stanchezza – se ne andrà. Come decine, centinaia di agricoltori che sono stati costretti a lasciare le loro cascine di fronte alla città che avanza inesorabile. Allora Salvatore potrà aggiungere un tassello all’elenco delle sue proprietà. (segue a pagina 2)