Criticata, vituperata, definita persino “ridicola” (Silvio Berlusconi, trenta giorni fa…). Per la proposta di istituzione di una tassa sulle transazioni finanziarie gli ultimi mesi sono stati un vero e proprio calvario. Volutamente confinata ai margini dell’ultimo G20 canadese, l’ipotesi di riforma si è scontrata con un’ostilità crescente assumendo sempre più i contorni di una proposta giudicata eccessivamente radicale e per questo, di fatto, irrealizzabile. L’impressione, in questo senso, è stata forte, intensa, talmente evidente da far vacillare le speranze dei suoi promotori. Almeno fino ad oggi. Già, perché dopo mesi di “impopolarità” qualcosa sembra aver improvvisamente fatto breccia nel muro eretto dal fronte dei moderati rilanciando prepotentemente l’ipotesi di una tassa in grado di far pagare alla finanza il conto della crisi. Venendo incontro, contemporaneamente, alle necessità di chi della crisi subisce i peggiori effetti collaterali.

A rompere il silenzio, in questi giorni, è stato il Leading Group on Innovative Financing for Development, un gruppo di lavoro istituito da 12 Paesi nello scorso ottobre. Secondo i ricercatori coordinati dal numero uno dell’Institute of Chartered Accountants in England & Wales Michael Izza non ci sono dubbi: i pesanti tagli di bilancio imposti dai governi di tutto il mondo acuiscono le difficoltà nel raggiungimento degli obiettivi minimi di sviluppo. Dal 2012 al 2017 la lotta al cambiamento climatico e i programmi di assistenza potrebbero richiedere un esborso complessivo di quasi 340 miliardi di dollari, una cifra difficile da rastrellare in assenza di nuovi interventi. Da qui la proposta di soluzione: una tassa sulle transazioni basata su un’aliquota bassissima, lo 0,005%, e destinata a trasformarsi in un’autentica “Global Solidarity Tax” con un sistema di raccolta centralizzato e una successiva ridistribuzione nelle nazioni in via di sviluppo. Il sistema, afferma il Leading Group, funzionerebbe senza difficoltà: il 95% delle transazioni interbancarie in valuta straniera è tuttora realizzato attraverso un singolo sistema informatico, il cosiddetto CLS Bank, con il quale è già possibile applicare in automatico imposte che non possono essere eluse. Le critiche sull’inapplicabilità della tassa possono tranquillamente cedere il passo. “Il problema non è tecnico – ha dichiarato Izza – , semmai è di volontà politica”.

Come e quando questa volontà possa affermarsi resta oggi l’interrogativo principale. I promotori guardano al prossimo G20 in programma a Seul in autunno con la speranza che i leader del pianeta scelgano di affrontare seriamente la questione. La “Global Solidarity Tax”, per altro, non rappresenta nemmeno una proposta troppo radicale – la campagna internazionale “Make Finance Work” propone un’aliquota dieci volte superiore con l’obiettivo di rastrellare ogni anno qualcosa come 655 miliardi di dollari, all’incirca il Pil dell’Olanda (!) – ma la sua affermazione di principio rappresenta comunque un passo avanti decisivo. Nel rapporto presentato dal Leading Group viene giudicata apertamente inutile (“richiederebbe più tempo, ma non ce n’è”) l’ipotesi di una tassa patrimoniale sugli istituti – la famosa Bank Levy – che, negli ultimi mesi, si era ormai affermata come la più probabile soluzione compromissoria tra le istanze “pro mercato” degli operatori e quelle pro riforma dei governi. Gli Usa, come noto, sostengono apertamente questa ipotesi in contrasto con la posizione del fronte europeo guidato dal cancelliere tedesco Angela Merkel, già espressasi con favore in merito al progetto di una tassa sulle transazioni. Una situazione di contrasto che rende al momento inefficace qualsiasi eventuale iniziativa “regionale”. Lo schema di tassazione proposto “colpirebbe” le transazioni condotte in dollari, yen, euro e sterline. In caso di rifiuto statunitense, nota oggi il quotidiano britannico Guardian, la maggior parte dei ricavi previsti sarebbe persa in partenza.

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