All’improvviso le spietate regole della globalizzazione spiazzano il nobile riformismo subalpino scodellando una stupefacente beffa della storia. Dunque Sergio Marchionne ha deciso durante lo scorso weekend, in riunioni tenute non al Lingotto ma negli uffici americani di Auburn Hills, di spostare un miliardo di investimenti dallo stabilimento torinese di Mirafiori allo stabilimento serbo di Kragujevac. Nel 1999 era la fabbrica della Zastava. Fu pesantemente danneggiata dai bombardamenti della Nato, con la partecipazione dei Tornado italiani, spediti a distruggere (pro bono pacis) dal governo guidato da Massimo D’Alema, in forza di un voto del Parlamento italiano cui partecipò Sergio Chiamparino, oggi sindaco di Torino. Paradossi di una globalizzazione che mal si combina con l’internazionalismo. Per Chiamparino, da buon politico ultrasessantenne, un disoccupato a Kragujevac vale meno di un disoccupato a Termini Imerese, e tutti e due valgono molto meno di un lavoratore torinese.

Effetto Marchionne, il manager più amato dalla sinistra italiana. Fino a che andava giù duro con meridionali e stranieri è piaciuto. Solo due settimane fa il sindaco di Torino era inflessibile con gli operai di Pomigliano d’Arco: “La sfida di Marchionne va assolutamente accettata e giocata fino in fondo. È sbagliato misurarla sulla base di stilemi del passato”. Adesso si sente preso in giro: “Trovo non accettabile che sia lo stabilimento di Mirafiori, il primo che ha creduto nella possibilità di un rilancio dell’intero progetto Fiat in Italia, a pagare le conseguenze di un accordo dimezzato su Pomigliano”. E poi incalza: “È sorprendente questo annuncio. Non ho capito quale tipo di ragioni si portano per dire che in Serbia ci sono condizioni che non si troverebbero a Torino”. Già, verrebbe da dire, li avevamo anche bombardati… Stilemi del passato. Quando l’annuncio della chiusura di Termini Imerese a fine 2011 fu accompagnato da una dose profilattica di cassa integrazione, Chiamparino, mentre serafico si interrogava sul partito del Nord, rassicurava il popolo del Sud: “La cassa integrazione è una misura dolorosa, ma che non deve essere drammatizzata”. Adesso il sindaco di Torino è costretto a inginocchiarsi davanti al maglioncino del capo, come un qualsiasi assessore meridionale: “A Marchionne ho chiesto che si possa affrontare il nodo Mirafiori – ha riferito ieri – e mi è sembrato di trovare da parte sua ampia disponibilità e volontà di non pregiudicare quella T che nell’acronimo Fiat rimanda a Torino. Dico questo senza indulgere a facili ottimismi”. Sfiduciati. Anche se Gad Lerner, perfido, consiglia dal suo blog di “evitare la tentazione del dietrofront”. Si rivolge agli “innamorati di Marchionne”, e nel mazzo stringe con Chiamparino anche Piero Fassino e Fausto Bertinotti.

Fassino è quello che ha consegnato a Marchionne la patente di socialdemocratico, e quando l’apolide di Chieti ha annunciato la chiusura di Termini Imerese gliel’ha solennemente confermata: “Nel momento in cui si verifica un processo di riorganizzazione così teso può accadere che uno stabilimento non sia più considerato strategico. Sarebbe demagogico e propagandistico cambiare giudizio sulle giuste scelte strategiche della Fiat”. Fassino sulla Fiat sembra aver cambiato giudizio una volta sola. Quando all’età di 49 anni, da ministro del Commercio estero, si è laureato con una tesi sulle lotte operaie dei 35 giorni alla Fiat (110 e lode “anche perché è la sofferta testimonianza di un protagonista”, disse il relatore), ha spiegato nel suo elaborato che la sconfitta storica inflitta al sindacato da Cesare Romiti andava ricondotta a errori dei sindacati e dello stesso Enrico Berlinguer, che fu “ambiguo”.

Giudizio storico sicuramente diverso da quello di un altro protagonista di allora, Fausto Bertinotti, che però poi non è rimasto indenne dall’innamoramento per il manager con il pullover. Si è talmente entusiasmato che due anni fa, mentre dalla presidenza della Camera aiutava il governo Prodi a sfasciarsi, proclamò: “Ci vorrebbe un Marchionne per l’Alitalia”. Invece c’è andato un altro mito della sinistra, la famiglia Colaninno.

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