Una cosa che non è divertente: immaginare che Kafka non sia mai esistito. Fare come in una storia di Paul Auster, vagheggiando l’idea che il suo nome sia in realtà l’invenzione astuta e geniale di Max Brod, e tutte le sue opere il frutto di un inganno tirato al mondo delle lettere e alla bellezza glaciale di tutti i paradossi.
Se non fosse segno di maleducazione parlare degli affari privati di un genio e arrivare a metterne in discussione l’effettiva esistenza, mi dilungherei a fornire una fiumana di dettagli sull’ipotesi di un ennesimo grande complotto ai danni della cultura occidentale, come se la letteratura stessa non fosse, alla fine, essa stessa un complotto monumentale ordito contro l’intelligenza di milioni di lettori. Mi limiterò perciò a pochi accenni al corpo esile di Kafka e a qualcos’altro. Quel corpo da acrobata, mimo e danzatore, che magari è stato il frutto di una messinscena impersonata da un Buster Keaton boemo in cerca di popolarità assoldato per una burla dal giornalista, romanziere e compositore Brod nella Praga dei primi anni Venti.
Ma non è divertente, l’ho premesso. E non ho alcuna intenzione di aggiungere il mio nome a una schiera di autori postmoderni impelagati nelle questioni del metaromanzo. Eppure questa storia del rinvenimento nei caveau di una banca di Zurigo di alcuni testi inediti di Kafka – testi lasciati da Brod in persona a Ester Hoffe, sua cameriera, segretaria e forse anche amante, poco prima di morire nel 1968 – qualcosa deve pur avere smosso nella fantasia di qualcuno, compresa la mia. Brod che parte con una valigia di carte e si trasferisce a Tel Aviv dove inventa di questo strano amico che gli ha affidato il compito di bruciare tutti i suoi manoscritti al momento della morte. Un’idea nient’affatto originale, deve aver pensato Brod. Ma se quei manoscritti contenessero la cronaca dell’insensato processo mosso contro un tale Josef K, le peripezie di un agrimensore capitato durante una gelida notte d’inverno in un villaggio sovrastato dalla figura minacciosa di un castello, e le vicende di Karl Rossmann sedicenne praghese costretto dai suoi genitori ad emigrare in America, allora…
Allora sarebbe tutta un’altra storia. E poi, non ancora pago dell’immenso cataclisma provocato dalla sua invenzione, ecco Brod che prende e infila ancora un po’ di carte in un materasso che poi regala alla Hoffe. E dato che la cameriera possiede numerosi gatti, le carte segrete di Kafka diventano la lettiera preferita dei gatti della Hoffe. Verrà il giorno che quelle carte – pensa Brod – finiranno al centro di un intrigo internazionale, e immagino già le palle degli occhi penzolanti di critici e studiosi, e i pettegolezzi dei maligni sulla povera Ester e le sue figlie che dovranno pure garantirsi in qualche modo una vecchiaia dignitosa.
Così io devo combattere con certe indicibili spaventose tentazioni per non figurarmi la faccia degli impassibili funzionari di banca svizzeri che nell’estate rovente di questo 2010 aprono il caveau per ordine delle sorelle Hoffe, e davanti agli ultimi scritti di Kafka si turano il naso per la pipì di gatto.