L'esposizione "Mesopotamian dramaturgies" del produttore cinematografico racconta la costruzione dell'identità della Turchia, terra sospesa tra Occidente e Oriente
Con questo progetto in mostra fino al 12 settembre al nuovissimo museo delle arti del XXI secolo, Ataman gioca con delle video-installazioni per raccontare il tema della costruzione dell’identità in Turchia, quella terra di mezzo sospesa tra Oriente e Occidente, tra tradizione e modernità, dove la globalizzazione si sta timidamente prendendo spazio fra le consolidate culture locali. Il risultato è un’esposizione in cui il visitatore, spaesato dagli spazi enormi e sospesi del Maxxi, si ferma in un luogo accogliente per riflettere.
Frame è l’ingrandimento di una fotografia scattata all’inizio del secolo scorso a un gruppo di militari, in cui l’inquadratura taglia fuori alcuni di essi: il generale è l’unico che occupa il centro. Nel mezzo della sala quattro divani formano un quadrato: basta sdraiarsi per osservare sul soffitto le immagini di Dome, giovani turchi, un po’ ammiccanti, che mostrano i loro cellulari e altri aggeggi tecnologici, simbolo della Turchia moderna. In English as a Second Language la globalizzazione si rivela del tutto illusoria: l’opera è la proiezione di due ragazzi in giacca e cravatta che leggono i versi, in inglese, del poeta Edward Lear. Sono impacciati: la lingua che rappresenta il pas par tout della modernità, in questo caso sembra portare a una perdita del senso della comunicazione. Una lingua imposta, come imposto è il matrimonio della ragazza ritratta in Pursuit of Happiness che le ha segnato la vita e negato il diritto alla felicità.
In esposizione ci sono anche tre film: la storia di un diciassettenne turco che scopre la sua omosessualità, quella della relazione fra due ragazze adolescenti e il tragicomico tentativo di un gruppo di contadini che alla fine degli anni Cinquanta prova ad andare sulla Luna.
Ataman è stato capace di ricucire, tramite le otto opere in mostra, un tessuto di riferimenti politici, storici e sociologici dove mette in discussione la pretesa di universalità dei “valori europei” che si sono insinuati nel suo Paese. La domanda è: esiste una modernità alternativa a quella occidentale? La sensazione è che non siano le opere ad essere in mostra, ma il visitatore, che si espone al loro giudizio.