Ho visto l’Aquila. Quel che resta, quel che c’era. L’ho rivista a un anno, tre mesi e venti giorni dall’ultima volta. Erano passate poche ore dal terremoto. Ricordo polvere, lutto e speranza. Oggi la speranza è rabbia. La città è vuota e transennata, la gente è sparpagliata in zona siglate: c.a.s.e, map, a,b,c,d. L’illusione del miracolo è durata poco, soltanto visitando la città riesci a capire il tempo che s’è fermato e che nessuno vuole recuperare. Passeggiare per il centro storico è come passeggiare per una città bombardata. E la guerra – sia chiaro – è finita nei secondi di una domenica notte. Una città è rumore, simboli, gente. E l’Aquila è povera di tutto. Ho vissuto anni (infiniti) della ricostruzione in Irpinia, fatta di tangenti, scandali e clientele che, a distanza di trent’anni, ritornano puntualmente all’Aquila. Per rifare da zero decine di palazzi e abitazioni servono soldi e volontà politica. Non ci sono soldi né politica.
Il governatore Chiodi è un ambasciatore di Berlusconi, il sindaco Cialente e il deputato Lolli sono deboli perché debole è il partito di riferimento. Il Pd di Bersani, Franceschini e, quando capita, di Veltroni e D’Alema. Per trent’anni l’Irpinia – e anche la Campania e la Lucania – hanno ricevuto milioni di euro dalle Finanziare, soldi divisi tra ruberie, sprechi e cose buone. Chi aveva due camere e cucina nell’80, oggi possiede ville al mare e nei paeselli. Hanno buttato via i piccoli centri storici e montato capannoni per l’industria del nord. L’Irpinia di allora non è l’Irpinia di oggi, eppure non muore di fame. Il terremoto ha colpito l’Aquila intera, soltanto riaprendo la zona rossa, ovvero i vicoli medievali, la città potrà rinascere. Altrimenti sarà un’Aquila due. Come Milano due. E senza la politica – abbandonante in Irpinia e in Campania – e senza la percezione del problema, ora come ora, sembra che la vera Aquila non tornerà mai.