Intervista a Don Alberto Barin, cappellano del carcere milanese
“Dopo il Monumentale e il Maggiore, San Vittore è il terzo cimitero di Milano”. Sono le parole con cui don Alberto Barin descrive il carcere milanese dove si lotta contro il sovraffollamento, tra topi, scarafaggi e zanzare.
Barin è cappellano a San Vittore da tredici anni. Arriva nel 1997 per volontà del Cardinale Carlo Maria Martini. La sua è una quotidiana guerra di posizione: “Oggi il carcere è una discarica. Del resto – spiega – la parola deriva dall’ebraico carcar, che significa tumulare, sotterrare”. Una discarica, quella di San Vittore, dove 1600 detenuti sono stipati in una struttura che può ospitarne al massimo 700.
Padre, come si è giunti all’emergenza del sovraffollamento?
Il problema è strutturale solo in parte. La verità è che in Italia seguiamo pratiche d’arresto scandalose. Finisce in carcere chi ha rubato per fame, chi non ha i documenti, chi ha tentato un furto per procurarsi la droga. Tutti dentro. Così la prigione diventa il contenitore del disagio sociale, un luogo dove nascondere i problemi che non siamo capaci di risolvere in altro modo.
Questa mattina è arrivato un uomo che non ha rispettato l’obbligo di dimora disposto dal giudice. Era uscito dal suo paese per guadagnarsi da vivere: trecento euro per imbiancare la casa di un conoscente. Probabilmente si farà otto mesi. È sieropositivo.
Crede nell’utilità di costruire nuove e più capienti strutture?
Prima di progettare future carceri, bisognerebbe pensare a chi vive in quelle esistenti. A San Vittore abbiamo due raggi inutilizzabili. Dovrebbero ristrutturare quelli e alleggerire gli altri. Vivere in otto nella stessa cella non è umano. Un detenuto mi ha raccontato di un grosso topo uscito l’altro giorno da una turca, e non è certo un caso isolato. Ma quale recupero sociale possiamo innescare in una topaia?
Il ministro Alfano aveva proposto i domiciliari per quanti devono scontare l’ultimo anno.
I detenuti sanno che alla fine dovrà esprimersi il magistrato competente. I tempi della burocrazia finiscono per trasformare quell’anno in poche settimane. Il problema va affrontato alla radice. Bisogna smettere di considerare le carceri come la pattumiera del degrado sociale, investire in alternative che riducano gli ingressi e ripensare la condizione delle tante persone in attesa di giudizio.
Chi sono i detenuti di San Vittore?
In carcere ci finisce la povera gente, non è un luogo comune. Chi è ricco, anche se ha rubato milioni, esce prima di chi ruba un panino. A San Vittore abbiamo 400 tossicodipendenti, un intero reparto. Persone che andrebbero inserite in strutture di recupero. Invece la soluzione è sempre la galera, il metadone, e milioni spesi per medici e psicologi costretti ad operare in condizioni difficilissime.
E gli stranieri?
Qui a San Vittore i detenuti stranieri superano la metà di quelli totali. Parliamo di culture, religioni, lingue e persino abitudini alimentari differenti. Nonostante gli sforzi della direzione, con le celle strapiene è impossibile prevenire tutte le tensioni. In carcere sopravvivono e si alimentano i conflitti nati all’esterno, per il controllo dei traffici o di un territorio. Dentro le mura di San Vittore si percepisce benissimo l’ipocrisia di una città che mentre parla di sicurezza costruisce nuovi ghetti.
Esiste un collegamento tra l’aumento dei suicidi e il sovraffollamento delle carceri?
Dietro a ogni suicidio c’è prima di tutto una storia personale. Certo, in queste condizioni è più difficile intervenire, dare sostegno. Il carcere ti avvelena. Le sue mura iniettano il sospetto, la diffidenza, l’ansia. Molti crollano. L’unico modo di salvarsi è intraprendere un percorso interiore dove coltivare la speranza. A questo serve il mio lavoro. Ma in queste enormi sabbie mobili le mani tese sono spesso troppe.
Come si esce da questa situazione?
Il carcere dovrebbe essere l’extrema ratio, non sempre la prima soluzione. Di recente è arrivato un ragazzo italiano, sulla ventina. Aveva fame e ha rubato per mangiare. Mi ha raccontato di aver supplicato la direttrice del supermercato perché gli permettesse di riparare lavorando di notte, facendo le pulizie. Niente da fare, potrebbero dargli più di quattro mesi. La verità è che così il carcere crea più male di quanto non ne abbia fatto chi viene arrestato. Si rimane segnati, screditati agli occhi della famiglia, degli amici, nei rapporti di lavoro. Qual è il costo sociale di tutto questo?
Forse è il prezzo della sicurezza.
Il carcere non risolve i problemi della sicurezza e non è un deterrente. È un’illusione che la sicurezza si possa garantire costruendo penitenziari. La sicurezza si costruisce fuori dal carcere, creando quelle condizioni sociali che tengono lontane le persone dal delinquere.
C’è chi vorrebbe trasferire San Vittore in periferia. E’ d’accordo?
No. E’ un bene che il carcere rimanga una realtà visibile dai cittadini di Milano. Il Cardinale Martini, nelle sue tante visite qui a San Vittore, ripeteva spesso la famosa frase di Dostoevskij: “Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni”. Il carcere permette alla società di conoscersi. Se non le interessa, se allontana o nasconde questa realtà, significa che non è interessata a se stessa.