La casa è in fondo al paese, distesa su una curva affacciata sulle colline del Montefeltro. Il rifugio di Tonino Guerra, 90 anni, sceneggiatore degli Amarcord felliniani, dei deserti rossi e delle avventure di Antonioni e di alcune decine di titoli (Tarkovskij, Angelopoulos) che hanno disegnato la storia breve e incisiva di un cinema scomparso senza lasciare eredi, si chiama Pennabilli.
Una terra di mezzo tra le Marche e la Romagna, dove molto presto, di mattina, Guerra viene a sapere della morte di Suso Cecchi D’amico, una ragazza del 1914 da tempo ammalata, con la quale collaborò fin dall’immediato dopoguerra a moltissime visioni. Guerra bestemmia. Ansima, impreca ancora, poi si quieta. Il poeta tocca terra, senza le metafore dalle quali fatica a separarsi.
Epitaffio, metafore e suggestioni
L’epitaffio è sentito, enfatico, commosso, recitato per un’immaginaria platea. “Sono in montagna e sta piovendo. E vedo che anche il cielo e l’aria hanno preso il grigiore della commozione. Se penso alla mia amica, la rivedo come se fosse oggi. Con la macchina da scrivere sulle ginocchia, le dita rapide sulla tastiera, i concentrati silenzi in cui meditava, per poi fissare l’intuizione del momento. Suso Cecchi D’amico ha rappresentato uno degli incontri più dolci, delicati e inattesi della mia vita. Un lampo improvviso che coincise con le mie prime esperienze e che anche volendo, non posso cancellare. Mi dispiace davvero, per lei e per i figli”. Con la figlia di Emilio Cecchi, Guerra divise la candidatura all’Oscar per Casanova ’70 di Monicelli, un esiguo pugno di copioni felici (Le Fate, Il male oscuro) e i tanti pomeriggi romani sulla terrazza di Piazzale Clodio, con i fogli sul tavolo, il caffè sui fornelli e i dialoghi fitti da cui all’improvviso nasceva un’idea.
Educazione sentimentale
Guerra parla senza farsi interrompere: “Ho un’età in cui smarrire il filo equivale a perdersi” e ogni tanto si assenta. Si avverte un dolore non formale, un’altra croce sul muro dell’anagrafe, l’ennesimo saluto da un cenacolo sempre più limitato, rarefatto, impalpabile. “Suso rappresentò la mia educazione sentimentale al mondo del cinema romano. Io ero solo un provinciale venuto dalla Romagna con una valigia di speranze. Mi accolse in piedi, accanto alla porta, dandomi del lei. Un’abitudine che nonostante la consuetudine fosse quotidiana, mantenemmo per anni: “Prego entri, consideri la mia casa come fosse sua” mi disse la prima volta. Dividere le ore con lei, colloquiare, dimenticarsi delle convenzioni, degli obblighi del tempo e di tutti i maledetti orologi che scandiscono il giorno, mi cambiò la vita e mi permise di dare forma ai miei sogni e alle ambizioni che terminata la guerra, che entrambi avevamo conosciuto, covavo come chiunque altro”.
Ladri di biciclette (sua l’invenzione del furto), gli sfarzosi dipinti viscontiani (Bellissima, Senso e il Gattopardo), i capolavori di Monicelli, il segno di Suso (Giovanna) Cecchi è un diagramma inciso sulla cultura italiana. “E’ stata una delle luci più importanti del cinema mondiale. Sapeva scrivere, inventare, costruire storie a tavolino che non pagavano pegno all’artificio. I racconti di Suso erano semplici e anche quando non lo erano, non suonavano mai fittizi. Possedeva un’umanità non inquinata dagli orrori del quotidiano. Uno sguardo ancora capace di posarsi sulle piccole cose, su quello che a una prima occhiata distratta, sarebbero parse inezie e che invece erano frammenti utili a edificare il mosaico del racconto”. Guerra ricorda l’eleganza, l’educazione, la finezza delle osservazioni, il tempismo. “Abbiamo fatto molti film insieme. Nelle lunghe sessioni di sceneggiatura in cui ci scambiavamo suggestioni, ispirazioni e suggerimenti per offrire ai nostri personaggi simbolismi e profondità, mi sentivo un privilegiato. Dividere la pratica con Suso, rubarle qualcosa, imparare i trucchi è stata la mia università. Sapevo che stavo accanto a qualcuno che ogni volta che interveniva sapeva cosa dire e come dirlo”. In morte il ricordo si confonde e tutti sono migliori. Ma Guerra giura, non è il caso di Suso Cecchi. “Questa donna toscana di aspetto gentile e forza interiore straordinaria, sapeva tenere testa a caratteri difficili, senza mai abbassare il capo. Non marcava le distanze. Sapeva cosa significasse l’empatia, il divertimento, l’ironia anche con chi, su tutti Luchino Visconti considerava il suo campo d’azione sacro”.
Il regista di Morte a Venezia, ma anche Antonioni, Ennio Flaiano, Marcello Mastroianni e Francesco Rosi, con i quali sia Guerra (suoi i copioni de “Il Caso Mattei” e di “Cronaca di una morte annunciata”) che Cecchi D’Amico trascorsero stagioni senza interruzioni, tavole allargate tra Via della Croce e gli stretti vicoli di Trastevere, viaggi da fermo, con il solo ausilio del pensiero. “Ridevamo moltissimo. Senza preavviso, di quel riso spontaneo che è difficile frenare. Suso conosceva la cattiveria degli italiani. Le grandezze e le miserie, le bassezze, gli espedienti. Aveva mille talenti, parlava molte lingue, aveva girato l’Europa in lungo e in largo, suonava divinamente. A volte, quando mi incontravo con Michelangelo (Antonioni, ndr) per film che lei non avrebbe firmato, si presentava. Si metteva in un angolo e ascoltava, altre volte suggeriva, mai invadente. Mai prevaricante”.
Il piacere di inventare
I ricordi scavalcano la linea della memoria, scompigliano gli anni, arrancano alla ricerca di una sintesi. “Nessuno di noi inventava con l’ossessione del risultato. Non sapevamo se le illusioni con cui riempivamo le pagine, avrebbero incontrato il gusto del pubblico, ma non ignoravamo che era proprio nell’imperfezione e nell’incertezza che avremmo potuto trovare la poesia. Non si può immaginare un film per accontentare gli altri. Una storia deve soddisfare prima di tutto chi la scrive”. Guerra si ferma, decide che può bastare. “Devo pensare ai gatti, mi stia bene”. In lontananza, distante, l’odore del rimpianto.
Da Il Fatto Quotidiano del 1 agosto 2010