di Marcello Ravveduto
Domenica 1 agosto. Scario (SA). Con un rituale barocco irrinunciabile trasporto un tavolino e la mia sedia a sdraio in una zona d’ombra tra gli ulivi cilentani. Mi godo il fine settimana immerso tra il verde della collina e l’azzurro del mare. Ci vuole una pausa di riflessione bucolica. Sul piano di appoggio in ordine sparso una tazza di caffè, un posacenere, un libro e il solito toscano pronto ad ardere. Prima di sfogliare l’oggetto della mia passione letteraria concentro l’attenzione sulla copertina al cui centro campeggia una famosa foto cartoonizzata (così si dice, mi pare, nel neoitaliano dei social network) che ritrae Falcone e Borsellino. Sembra un’immagine degli anni Cinquanta che fissa un istante di vita di due borghesi siciliani. Giovanni ha la tipica posa da uomo di rispetto: sigaretta nella mano destra e la sinistra nella tasca del pantalone, rigorosamente in abito doppiopetto. Paolo lo segue in atteggiamento meno formale: giacca aperta, cravatta penzolante, capo reclinato a sinistra, sorriso quasi smarrito e mani dietro la schiena.
È la copertina de I misteri dell’agenda rossa, con una lunga intervista al boss pentito Gaspare Mutolo, l’ultima fatica di Francesco Viviano e Alessandra Ziniti pubblicata da Aliberti editore.
Il tema è di quelli caldi: che fine ha fatto l’agenda in cui il giudice Borsellino custodiva i resoconti di colloqui non verbalizzati e gli appunti sulla strage di Capaci?
Sin dalla prefazione di Edoardo Montolli il quadro assume le tinte fosche del tradimento di Stato: «c’è dunque un filo rosso che collega sempre, in ogni strage e delitto o suicidio, elementi di Cosa Nostra ed elementi dei servizi segreti, ufficiali o ufficiosi. Un filo che si manifesta fin dal 1989 e che fa pensare che tutto sia cominciato molto prima e non certo per iniziativa dei caprai corleonesi».
Nelle pagine successive emerge nell’interpretazione delle dichiarazioni di Riina una possibile strategia neostragista di forze eversive interne alla burocrazia statale in combutta con la politica e la mafia. Dice il capo dei capi: «Paolo Borsellino? L’ammazzarono loro… non guardate sempre solo me, guardatevi dentro anche voi». Certo Totò non è il tipo da passare per vittima sacrificale di un gioco più grande di lui, eppure può essere che i volponi dei servizi segreti si siano serviti della sua fama di macellaio per riavviare una strategia della tensione in salsa mafiosa e poi lasciare che sul misero contadino corleonese ricadessero tutte le colpe, consegnandolo alla giustizia. Sembra proprio uno di quegli avvenimenti che segna la fine di un era e l’inizio di una nuova fase. Ma andiamo con ordine.
I due giornalisti costruiscono un’inchiesta che, a cerchi concentrici, raggiunge il cuore della questione: il depistaggio, effettuato da mafiosi, politici e 007, intorno al processo di via D’Amelio. Le recenti dichiarazioni di Spatuzza svelano il ruolo assunto dal pseudo pentito Scarantino: un burattino nelle mani di forze occulte, utilizzato per evitare che si giungesse a collegare, in unica trama, la sequenza di atti eversivi: il fallito attentato dell’Addaura, la strage di Capaci, l’esplosione di via D’Amelio e l’assalto al patrimonio artistico del “continente”.
Dietro ogni azione è possibile rintracciare, grazie alle dichiarazioni del figlio di Ciancimino, Massimo, e di Spatuzza presenze anomale che hanno sostenuto l’organizzazione criminale ad eseguire gli attentati e ad attuare i depistaggi giudiziari.
Il rampollo dell’ex sindaco democristiano rivela l’esistenza di un super agente segreto, il “signor Franco” (che Viviano individua in un tal Keller Gross), informato su tutti i movimenti sotterranei tra Stato e mafia, che dopo l’arresto di Provenzano (l’ultimo capomafia in grado di proteggere la famiglia Ciancimino) lo invita ad allontanarsi dalla Sicilia. Ormai Massimo rischia grosso e decide di vuotare il sacco. Racconta dell’esistenza di un “papello”, una carta su cui sono riportati i termini di una trattativa aperta tra una parte dello Stato e la mafia per trovare un accordo che da un lato freni la violenza mafiosa e dell’altro conceda un alleggerimento della pressione carceraria ai boss soggetti al 41 bis.
Una trattativa condotta da funzionari pubblici disonesti: fino a che punto questi uomini hanno servito la causa repubblicana? Fino a che punto hanno utilizzato la minaccia della mafia per tenere sotto scacco la politica? Fino a che punto hanno condizionato i mafiosi desiderosi di ristabilire legami saldi con i vertici del potere centrale?
È plausibile che contadini analfabeti siano in grado di studiare una sottile strategia eversiva mirante alla distruzione dell’immagine della nazione con un attacco al suo patrimonio artistico?
A questo punto entra in campo Gaspare Mutolo che, raccontando i suoi colloqui con Borsellino, ha fretta di informarlo dell’esistenza di un cupola istituzionale-mafiosa composta da poliziotti, magistrati, politici e boss. Una forza oscura pronta ad intervenire con un gruppo di fuoco in grado di eliminare ogni ostacolo.
Intanto, mentre leggo il sole comincia a penetrare la fitta vegetazione. Non riesco a comprendere se l’aumento della sudorazione è dovuto al calore o all’apprendimento di una notizia che mi inquieta: Borsellino sarebbe stato informato, alla presenza di un poliziotto infedele, Contrada, della trattativa in atto con Cosa Nostra direttamente dall’allora Ministro dell’Interno, Nicola Mancino.
Dopo Gava un altro campano alla guida dello stesso dicastero avrebbe continuato ad avere rapporti ambigui con le mafie?
Il clou della tensione si raggiunge quando il giudice Tescaroli dice al giornalista: «…improvvisamente c’è una cessazione della campagna stragista, e avviene proprio quando muta lo scenario politico e istituzionale che è stato colpito da una duplice azione: da un lato da Cosa Nostra con le stragi, e dall’altro dalle indagini di tangentopoli. Quindi una classe politica viene azzerata e quando viene generato un nuovo assetto di potere, nuove forze subentrano, le stragi cessano. Questo è un dato oggettivo. Quindi bisognerebbe capire se e quale rapporto sia sussistito tra la trattativa, il nuovo assetto di potere e lo stop della campagna stragista».
Il giornalista navigato chiede se i nuovi referenti politici di Cosa Nostra, ovvero “Alfa” e “Beta”, siano Berlusconi e Dell’Utri, ma il magistrato cosciente e politicamente corretto e costretto a rispondere di dover osservare «l’obbligo del segreto».
Il libro ormai è finito ed io sono inzuppato di sudore. Mi alzo dalla sedia frastornato mentre penso ossessivamente al film Giovanni Falcone di Giuseppe Ferrara. Ogni volta che il giudice è in difficoltà incontra sulla sua strada “il dottore”, evidentemente un funzionario dei servizi segreti, che segue nell’ombra ogni suo movimento. Nella fiction filmica sarà proprio lui ad avvertire dell’arrivo di Falcone a Palermo e quindi ad innescare la macchina stragista. E sarà ancora lui a prelevare la borsa di Borsellino, contenente l’agenda rossa, nel trambusto successivo alla strage. Un capitano dei carabinieri tenta di fermarlo e lui lo minaccia con tutta la sua autorità di uomo dello Stato. Il film è del 1993 troppo presto per conoscere la verità che comincia ad apparire dietro i fumi del depistaggio solo oggi, eppure qualcuno con l’immaginazione visionaria dell’artista aveva anticipato la possibile verità. Rientro in casa, vorrei liberarmi del senso di oppressione che mi attanaglia: nel biennio 1992-1993 tra bombe, arresti e speranza di cambiamento lo Stato combatteva, all’insaputa dei suoi cittadini, una guerra interna in cui si sono affrontati servitori fedeli alla repubblica e un manipolo di occulti mercenari che paricavano il doppiogioco. Sulle macerie di questo conflitto è emersa un’altra classe politica che probabilmente, in cambio del silenzio mafioso, ha garantito nuova impunità e nuovi affari. Dalla prima Repubblica alla Repubblica mafiosa?
Aveva ragione Giuseppe De Santis Non c’è pace tra gli ulivi