Della rabbia di Brunella, giornalista vessata e sottopagata del napoletano, abbiamo già riferito. Poi purtroppo il suo caso non è isolato. E bisognerebbe anche chiedersi il perché.
Qualche giorno fa ho incontrato un giornalista napoletano esperto in temi ambientali, Fabrizio Geremicca. Giovane, brillante, in gamba, documentato, dalla penna frizzante e dal pensiero intelligente. In un paese normale non avrebbe difficoltà a ottenere un buon contratto in una testata di livello e a vivere bene del proprio lavoro. A Napoli, mi ha confessato, accumulando diverse collaborazioni riesce a malapena a racimolare una cifra che non sarebbe sufficiente a pagare l’affitto di una casa dignitosa.
Il mercato dell’informazione a Napoli è un disastro. Secondo Fabrizio, una delle principali colpe è nei giornalisti napoletani, responsabili di una forsennata corsa al ribasso delle tariffe professionali. In parole povere, si svendono per ragioni con le quali è difficile dirsi d’accordo. E mi fa un esempio, da lui pubblicato su un blog: “Chiacchierando con un collega che collabora al sito internet del Corriere del Mezzogiorno, un giornalista che ha superato da un pezzo la trentina, ho appreso che scrive e non è pagato. Lavora, cerca notizie, va in giro, le verifica e non percepisce un centesimo. Gli ho chiesto perché lo facesse. Mi ha risposto che così rimane nel giro e poi è meglio scrivere gratis, sperando che qualcosa accada in futuro, che non scrivere affatto. Stiamo parlando del sito internet di uno dei tre principali quotidiani cittadini. Lo stesso giornale remunera gli articoli dei collaboratori con 15 euro a pezzo. Nessun rimborso spese, nessun compenso per le foto. Altrove, mi raccontano, nelle altre redazioni cittadine, la situazione non è migliore. Spesso è addirittura peggiore”. Conclusioni di Fabrizio, che condivido in pieno: “Se queste sono le condizioni di lavoro, se ci sono giornalisti che scrivono gratis, se le remunerazioni dei pezzi compensano appena le spese, la qualità dell’informazione è destinata inesorabilmente a calare a picco. Il precario senza diritti e senza prospettive, se non di subire per anni uno sfruttamento sistematico, nel miraggio di un contratto, difficilmente sarà un professionista dalla schiena dritta, capace di resistere a condizionamenti e pressioni”. In pratica, andrà verso l’autobavaglio. Per il quale non c’è bisogno di fare una legge.