Caliendo si salva ma la maggioranza non c'è più. Molte assenze nel Pdl, rissa e insulti tra finiani ed ex. Bersani: "Il terzo polo? Già c'è da tempo"
È un crepuscolo epico e tragico, pieno di sorprese, colpi di scena, piccoli e grandi drammi, miserie e tragedie personali. È il finale che nessuno immaginava, fosco, confuso, contraddittorio: il berlusconismo muore balcanizzandosi a poco a poco, come la Jugoslavia titoista, spolpata dalle faide interne e dai rigurgiti delle bande etniche.
Alle 18:30, alla fine della vampata sull’emiciclo elettronico che dà conto del voto, le luci rosse dei voti contrari sono molto inferiori a quelle previste. L’aula resta per un attimo interdetta: il governo si ferma a quota 299, un risultato che nessuno aveva previsto. Non solo molto lontano dalla maggioranza assoluta che serve per governare (316 voti) ma anche inferiore alla somma dei voti contrari e delle astensioni (229 più 75, ovvero 304). Insomma, un fulmine a ciel sereno, oppure un segnale che “ormai non c’è alternativa, dobbiamo andare subito al voto”, come sussurrava uscendo da Montecitorio un sottosegretario.
Il berlusconismo si balcanizza perché ieri le divisioni tribali erano anche plasticamente visibili. Il gruppo dei finiani si è appena costituito ma non ha ancora ottenuto l’assegnazione dei suoi nuovi posti in un frammento di emiciclo omogeneo, e allora si sta gli uni affianco agli altri, gli ex camerati di ieri, nemici di oggi. E se le risse parlamentari sempre raccontano qualcosa, ieri la rissa è esplosa proprio dove la tensione era al massimo: Marco Martinelli, ex fedelissimo di Fini oggi rimasto nel Pdl confinava con Enzo Raisi e Aldo Di Biagio, sostenitori passionati del presidente della Camera. Martinelli tratta i suoi colleghi come adoratori di un culto eretico, ad un tratto, durante il dibattito, strappa la tessera del suo vicino Raisi, e la tira contro Di Biagio: “Se voti con quelli non ti voglio vicino a me!”. E la colluttazione deflagra nel transetto dietro l’emiciclo, con Raisi che si scaglia contro Martinelli gridando: “Ma che cazzo dici? Ma sei impazzito?”, e i commessi che devono correre ad interporsi. Se è il racconto di un crepuscolo, questo, è slabbrato, come quello di un libro fatto di pagine strappate. L’aula non vede, non capisce la meccanica della rissa, ondeggia e rumoreggia. Esce il ministro Renato Brunetta, sempre caustico e ironico. Esce Brunetta, e con il suo sorriso elettrico dice al cronista: “Scrivi! Scrivi che è in atto un complotto del Fodria!”. Di chi? Il ministro spiega che si riferisce ad un celebre acrostico sloganistico degli anni Settanta: “Fo-dri-a: le forze della reazione sempre in agguato! Ma scriva anche che non vanno da nessuna parte”.
Come sono andati i finiani? Se avessero votato contro, ieri il governo sarebbe caduto. Avevano molte assenze fra di loro alcune giustificate altre no: due sottosegretari non erano in aula, Roberto Menia e Antonio Buonfiglio. Ma, come spiega Carmelo Briguglio: “È inutile che vi accaniate. Se fossero venuti erano autorizzati da Fini a votare per il governo!”. Poi mancava Mirko Tremaglia, malato – dicono – in ospedale. Era assente anche Francesco Divella, quello della dinastia della pasta. E poi mancava, forse più sospetto, l’onorevole Giuseppe Consolo. Ma quasi ruggisce, a sentire questo appello, Flavia Perina: “Scusate, capisco tutte le contabilità, ma se con tutte queste assenze il governo non tocca quota trecento, non credo che il problema sia nelle nostre fila!”.
Già. Nel Pdl i buchi erano tanti e vistosi: tra i non partecipanti al voto ben sei deputati della maggioranza: Antonio Angelucci, Gennaro Malgieri, Chiara Moroni, Carlo Nola, Antonio Palmieri e la leghista Erica Rivolta. E se Palmieri è un fedelissimo del Cavaliere, la Moroni è sicuramente in rotta con lui, al punto da prefigurare il passaggio ai finiani con un intervento bello, appassionato e commovente. Sono legami che si sciolgono, storie personali che arrivano al redde rationem. Grida Fabrizio Cicchitto: “Lo scalpo dell’onorevole Caliendo dovrebbe arricchire la collezione dell’onorevole Di Pietro? Noi non ci stiamo”: E grida anche Antonio Di Pietro, ricordando che Caliendo, giovanissimo magistrato, figurava nelle liste della P2 e nella relazione della commissione Anselmi: “Altro che combinazione, questa è una sovrapposizione!”: Grida anche il pacatissimo Dario Franceschini. Prima ai pidiellini: “Sembra che non esistano reati per chi ha vinto le elezioni!”. E poi ai leghisti: “Gridavate Roma ladrona, ora la difendete!”. I deputati padani insorgono, e il loro capogruppo, Marco Reguzzoni viene a sua volta interrotto da cori e da motteggi. Chi è che lo interrompe? Non si capisce, perché i finiani sono ancora confusi qui e là, questa è una maggioranza che sente il nemico dentro le sue viscere. E Berlusconi? Per tutto il giorno ha mandato segnali di fumo e di guerra. Se non c’è la maggioranza, annunciava Vegas, si va al voto. Ma a fine scrutinio Enrico Letta già dubitava: “Se Berlusconi non sale sul Vulcano (ovvero sul Colle, ndr) questa sera, dovremo prendere atto che non è più Berlusconi!”. E Pier Ferdinando Casini? Esce dall’aula con un sorriso sornione: “Non chiedetemi dei numeri, perché noi eravamo gli unici compatti e senza defezioni. Studiatevi i numeri del governo, piuttosto…”.
E l’opposizione? Pochissimi assenti: uno tra i dipietristi (Gabriele Cimadoro), tre del Pd (Olga D’Antona, Franco Narducci, Andrea Sarubbi). Numericamente solida, anche se politicamente travagliata. Non è piaciuta nel Pdl l’intervista in cui Letta prefigura l’ingresso nel terzo polo, né la gaffe del segretario che già inseriva Giulio Tremonti nel totopremier. Tant’è vero che Bersani subito dopo il voto correva nella postazione del Tg3 per correggere il tiro: “Lavoro per ridurre le distanze tra tutti i partiti dell’opposizione”.
“Quando Caliendo il sol”, facile gioco di assonanza, che però evoca l’idea della progressione verso il nulla, del crepuscolo. Tutti hanno un frammento di verità in mano, nessuno ha la forza per dettare un tragitto. Il governo vacilla, il governissimo traballa già nella culla. Il berlusconismo dei miracoli finisce così, in un Parlamento balcanizzato che aspetta il voto anticipato come una liberazione dal caos delle piccole guerre.
da Il Fatto Quotidiano del 5 agosto 2010