C’è un solo periodo in cui amo le grandi città: agosto. Senza gente e auto tutto sembra diverso e nuovo. Si fanno belle passeggiate e si riescono a notare particolari che la confusione degli altri mesi nasconde. Ieri, in una piazza di Genova, mi sono imbattuto in una lapide semi nascosta e dedicata a Kostas Georgakis.
Con un salto a ritroso sono in Grecia, nella notte del 21 aprile 1967. Un gruppo di ufficiali attua un colpo di Stato instaurando, per sette anni, una dittatura che verrà ricordata come: “il regime dei colonnelli”.
In questa Storia s’inserisce la piccola storia di Kostas Georgakis.
Kostas nacque a Corfù e quando s’instaurò il regime dei colonnelli frequentava gli ultimi anni di liceo. L’insofferenza verso la dittatura lo portò ad alcuni gesti di ribellione verso il regime. Il padre per evitare guai peggiori lo mandò a studiare in Italia.
Arrivato a Genova, Kostas, s’iscrisse alla facoltà di Ingegneria e fra una lezione e l’altra iniziò, con altri studenti, un’attività clandestina di resistenza al regime dei colonnelli.
La sua fu un’opposizione senza armi tesa solo a sensibilizzare gli italiani al dramma greco.
Nel nostro Paese però c’erano anche studenti greci che appoggiavano il regime dei colonnelli svolgendo attività delatoria e tessendo rapporti con gruppi neofascisti italiani: Ordine Nuovo di Pino Rauti e soprattutto il Fronte Nazionale del principe Valerio Borghese. A Napoli il 28 ottobre 1969: in una chiesa greco-ortodossa studenti greci e giovani missini celebrarono l’anniversario della marcia su Roma.
Il 26 giugno 1970 Kostas Georgakis rilasciò un’intervista alla rivista Sigla A in cui rivelò le sue idee politiche e fece i nomi degli studenti che a Genova lavoravano per il regime dei colonnelli.
L’accordo tra il giornalista e Kostas fu che l’intervista restasse anonima, ma alcuni giorni dopo qualcuno rubò dalla redazione la cassetta audio. L’accento dell’intervistato era tipico di Corfù: a Genova, di quell’isola, c’era solo Kostas Georgakis. Lo studente intuì di essere stato scoperto.
Dopo poco Kostas ricevette dal padre una lettera in cui apprese che il rinvio per il servizio militare gli era stato negato. Doveva tornare in Grecia per assolvere gli obblighi di leva. Questo significava che appena avrebbe messo piede a Corfù sarebbe finito in galera.
Se non fosse tornato, invece, sarebbero stati i familiari a pagare le conseguenze della sua attività sovversiva. Kostas era alle strette e il 19 settembre 1970 alle tre del mattino si coprì di benzina e si diede fuoco in una delle piazze principali di Genova. Avvolto dalle fiamme correva urlando: “Viva la Grecia libera! Abbasso i colonnelli! Aiutate la Grecia!”
La morte sopraggiunse circa nove ore dopo l’accaduto.
Il suo gesto lo trasformò in un simbolo di libertà che il regime di Atene cercò subito di demolire.
Il giorno dopo la morte del ragazzo, il console greco di Genova scrisse all’Ambasciatore di Roma descrivendo Kostas come un disadattato fannullone.
Il primo atto ufficiale fu quello di vietare il ritorno della salma in patria e il funerale si svolse a Genova.
Una folla commossa e partecipe di greci e italiani seguì il feretro fino al cimitero di Staglieno.
Mischiato con altri fotografi, un uomo vestito di scuro, iniziò a scattare primi piani agli studenti greci che portavano la bara sulle spalle. Qualcuno se ne accorse. “C’è una spia! C’è una spia!”. L’uomo fu circondato. “Chi sei? Per chi lavori?”.
“Per l’ANSA” fu la risposta. Gli inviati dell’agenzia giornalistica presenti in quel momento lo smentirono subito. Nessuno di loro l’aveva mai visto né conosciuto. Qualche istante e arrivò la polizia a fargli scudo. “Ci pensiamo noi” dissero.
Qualche ora dopo il capo dell’ufficio politico della polizia dichiarò che si trattava di un fotografo dilettante e che i rullini erano stati sequestrati.
Ma se si tratta di un fotografo dilettante perché disse di essere dell’ANSA?
E perché la polizia non rivelò ai giornalisti l’identità del fotografo?
Nel suo libro Colpo di Stato, il giornalista Camillo Arcuri ricorda come in quel periodo in Italia era in preparazione un colpo di Stato che fu fermato, con un contrordine di Licio Gelli, a pochi istanti dal suo compimento e cioè nell’ascensore dell’allora presidente della Repubblica Italiana Giuseppe Saragat.
A organizzare il colpo di Stato fu il principe Junio Valerio Borghese, ex comandante della X MAS. Il piano vantava appoggi in ogni ambiente della società italiana: militare, politico, mafioso.
“E allora” si chiede Camillo Arcuri accostando i due episodi, “Per quali oscuri scambi di favori polizieschi si consentì alla longa manus dei colonnelli di agire indisturbata in casa nostra e soprattutto contro la linea politica del governo italiano che per bocca di Aldo Moro tacciava il regime greco di nemico della democrazia?”
Si trattava di uno scambio di favori tra elementi politicamente vicini di polizie lontane?
Quel fotografo era un agente dei sevizi segreti greci che agiva con la copertura della nostra polizia? Con la copertura di alcuni elementi della nostra polizia che in seguito avranno parte attiva nel golpe Borghese?
Certamente a chi stava preparando il colpo di Stato in Italia non dispiaceva aiutare o quanto meno non intralciare il “lavoro” di un regime amico come era quello dei colonnelli.
Supposizioni, fantasie, calunnie direbbero alcuni.
Fatto sta, che in una lettera il console greco a Genova comunicò all’Ambasciatore i nomi degli studenti greci che portarono a spalle la bara.
La lettera, poi, si concluse così: “Un solo episodio grave si ebbe durante i funerali: un poliziotto italiano scattava fotografie, i fotografi accortisi di ciò lo aggredirono, ma venne allontanato per intervento della polizia”.
Tutti, in quell’occasione, nutrirono dubbi sull’identità del fotografo, ma nessuno arrivò a dire che quello era un poliziotto italiano.
L’unico, fu il console greco e lo fece con una lettera “SEGRETA” inviata all’Ambasciatore.
Di tutta questa Storia e di Kostas Giorgakis resta solo una lapide visibile a Genova soprattutto ad agosto quando per le vie c’è silenzio e tutto sembra più semplice da capire.