Lo sanno in pochi, purtroppo, vacanzieri occasionali e residenti: eppure chi si trovasse non troppo distante da Ghilarza, nel cuore della Sardegna, potrebbe spendere una mezza giornata a casa di Antonio Gramsci, e ritrovarsi felicemente turbato; turbato, ma felicemente. Perché la casa dell’adolescenza di Gramsci è oggi un piccolo e accogliente museo che del nostro ricorda non solo la vita in famiglia, la salute compromessa, e indirettamente gli anni della lontananza e della prigionia, ma anche il pensiero, l’attività politica, e un’eredità che, come accade per buona parte dei “grandi”, fatica a ritagliarsi uno spazio nella superficialità della società, anche politica, contemporanea. A colpire il visitatore è innanzitutto una riproduzione anastatica (che occupa un’intera parete) della lettera che Gramsci scrisse nel 1928 a sua madre, quasi a volersi scusare delle scelte compiute, quelle che lo condannavano a essere, di fatto per sempre, un prigioniero politico:
“Vorrei per essere proprio tranquillo, che tu non ti spaventassi o ti turbassi troppo qualunque condanna siano per darmi. Che tu comprendessi bene anche col sentimento, che io sono un detenuto politico e sarò un condannato politico, che non ho e avrò mai da vergognarmi di questa situazione. Che, in fondo, la detenzione e la condanna le ho volute io stesso, in certo modo, perché non ho mai voluto mutare le mie opinioni per le quali sarei disposto a dare la vita e non solo a stare in prigione. Che perciò io non posso che essere tranquillo e contento di me stesso”.
La detenzione e la condanna le ho volute io stesso: il Gramsci divulgatore dell’ideale comunista, il Gramsci intellettuale al servizio di una società nuova, di un’Italia migliore, di un futuro di emancipazione piena, il Gramsci che si rifiuta di stringere la mano a Mussolini dopo l’unico intervento (sulla questione meridionale) fatto in Parlamento, è un eroe tragico, e dunque felice. Un eroe che trae felicità e tranquillità dall’essere (inevitabilmente) imprigionato, perché la prigione non è che la conseguenza dell’essere rimasto fedele al suo credo politico. E quando si sfoglia l’album di famiglia, quello che all’ingresso del museo raccoglie le fotografie dei leader della sinistra che hanno visitato nel tempo la casa, è difficile non soffermarsi sulle immagini del piccolo Berlinguer, e pensare a quel comizio condotto fino in fondo, nonostante l’ictus lo avesse già condannato.
Beato il paese che non ha bisogno di eroi. Ma beato il paese che, quando ne ha bisogno, di eroi ne possiede. È del turbamento felice che coglie l’ospite della casa di Gramsci che abbiamo bisogno; della consapevolezza di poter persino dare la vita, per l’ideale di una società migliore, e di farlo con serenità. Non viviamo in una dittatura repressiva come quella contro la quale si scagliava Gramsci; eppure, in parte proprio per questo, fatichiamo a immaginarci al suo posto, non possediamo nemmeno un briciolo del suo fervore, spesso non ci impegniamo nemmeno a pensare le cose diversamente da come appaiono. La nostra moribonda democrazia ha purtroppo bisogno di eroi, ma anche di cittadini che dell’esempio di quegli eroi non si accontentino. Di cittadini che si sentano imprigionati, se si ritrovano a vivere in una società che non consente loro di cambiarla. Un salto a Ghilarza vale più di una mezza giornata.