In una recente intervista a Gianfranco Soldera, uno dei produttori italiani di vino più rinomati al mondo, ho domandato se ci fosse un “gusto americano” del vino. Lui ha risposto che tale domanda non significasse nulla, che non ha senso riferire il gusto a un mercato, che c’è soltanto il gusto di ciascun vino: il gusto di Brunello, il gusto di Barolo.
Ciò che da secoli i francesi chiamano goût de terroir.
Per quanto categorica, la risposta di Soldera è complessa. E tutt’altro che ovvia. Difatti, per non meno di vent’anni anni, si è sentito parlare di “gusto americano”: come antonomasia d’un preteso e unico gusto internazionale del vino. In quanto gli Usa sono uno dei mercati di riferimento per i vini italiani sin dall’inizio del XX secolo. E l’Italia è il paese che esporta più vino in quel continente, anche secondo gli ultimi dati. Inoltre la critica statunitense, specie il famigerato Robert Parker (deriso e temuto al contempo), ha orientato per quasi un ventennio i volumi delle importazioni di vino in USA. Quindi la produzione di vino europea. Niente di diverso da ciò che, in altri secoli, era avvenuto con altri paesi.
Il “gusto americano”, lasciato intendere come una sorta di gusto inferiore e adolescente (cui però ispirare i nostri vini), ha così finito per indicare due generi di vino:
- i vini industriali: si pensi ai milioni di bottiglie di Lambrusco dolciastro e frizzante (detto red cola) che veniva esportato negli Stati Uniti fra gli anni Settanta e gli anni Ottanta. O si pensi al milione di bottiglie di Chianti che oggi è venduto soltanto nello Stato di New York, ed è il vino rosso più bevuto in America. Tali vini costano non molti euro o dollari. Il loro successo, motteggia una nota pubblicità, “invita a riflettere”. Già a riflettere sull’industria che s’è appropriata la distribuzione e il consumo del vino.
- i vini globalizzati: anonimi ed apolidi. Vini nettissimi e coloratissimi, al naso marmellatosi, alla bocca dolci o melliflui, comunque tannici in chiusura. Vini ottenuti con tecniche di viticoltura e vinificazione omologanti, sublimati al modello del “vino da degustazione”. Un modello celebrato dalla critica mondiale: che appronta manifestazioni con nomi altisonanti; riunisce gruppi di degustatori; anestetizza e stratifica il palato con cinquanta-cento vini al giorno, per poi dar premi ai più grossi e meno riconoscibili. Vini che sono per anni stati il frutto d’un algoritmo, teorizzato nel 1998 da Sommers, professore australiano di enologia. Un algoritmo che identifica la qualità con la quantità dei parametri misurabili nel vino. Con tale visione, o meglio tale credo, è stata fatta una selezione eugenetica dei vitigni: 5-6 al più, che sono stati piantati in tutto il vecchio e il nuovo mondo, soppiantando quelli autoctoni e alterando le peculiarità dei vini. Quindi misconoscendo, ad esempio, il patrimonio ampelografico e culturale italiano. Insomma è globalizzata sia la Barbera che viene fatta sapere di Amarone, sia il vino toscano che viene fatto sapere di vino bordolese. Quasi tutti comunque sanno di barricche. Tali vini possono costare anche più di cento euro o dollari.
“La maggior parte dei vini prodotti al giorno d’oggi”, osserva Jancis Robinson, uno dei critici vinicoli meno ignoti al mondo “è annoverabile fra i vini industriali o globalizzati”.
Peraltro chi produce vini globalizzati spesso si trova a competere sul mercato con le industrie.
È il mercato che ha voluto vini simili? Il mercato più grande, cioè quello americano?
Quando si domanda a un produttore di Vernaccia perché vinifichi in barricche con l’intento di dare aromi poco originali ai vini, quello risponde che non è tanto per il gusto del mercato americano, quanto per il gusto della critica nostrana.
Forse è meglio domandare a Ceri Smith, che ha una delle più rinomate enoteche degli Stati Uniti, in quanto consacrata al vino italiano: Biondivino.
“Lei vende vini dal gusto americano?”
Io vendo italiani vini che sanno di vino italiano, anche se non è così facile scovarli. E conosco molte persone che sanno apprezzarli.
“Segue le indicazioni della critica, di Robert Parker ad esempio?”
No. Mi fido di più delle previsioni del tempo. Così posso venire in Italia, assaggiare i vini e proporli ai miei clienti.
“Che ne pensa dei Supertuscan, sono vini globalizzati?”
Ho messo un Bordeaux nella sezione che comunemente si pensa debba essere riservata ai Super Tuscan. Non vendo Super Tuscan. D’altronde se qualcuno vuole bere un Bordeaux, bevesse un Bordeaux, che a volte costa anche meno. Comunque i Super Tuscan, più che ai bordolesi, sono simili ai vini californiani: che io, pur essendo a San Francisco, non vendo”.