In una recente intervista a Gianfranco Soldera, uno dei produttori italiani di vino più rinomati al mondo, ho domandato se ci fosse un “gusto americano” del vino. Lui ha risposto che tale domanda non significasse nulla, che non ha senso riferire il gusto a un mercato, che c’è soltanto il gusto di ciascun vino: il gusto di Brunello, il gusto di Barolo.
Ciò che da secoli i francesi chiamano goût de terroir.
Per quanto categorica, la risposta di Soldera è complessa. E tutt’altro che ovvia. Difatti, per non meno di vent’anni anni, si è sentito parlare di “gusto americano”: come antonomasia d’un preteso e unico gusto internazionale del vino. In quanto gli Usa sono uno dei mercati di riferimento per i vini italiani sin dall’inizio del XX secolo. E l’Italia è il paese che esporta più vino in quel continente, anche secondo gli ultimi dati. Inoltre la critica statunitense, specie il famigerato Robert Parker (deriso e temuto al contempo), ha orientato per quasi un ventennio i volumi delle importazioni di vino in USA. Quindi la produzione di vino europea. Niente di diverso da ciò che, in altri secoli, era avvenuto con altri paesi.
Il “gusto americano”, lasciato intendere come una sorta di gusto inferiore e adolescente (cui però ispirare i nostri vini), ha così finito per indicare due generi di vino:
“La maggior parte dei vini prodotti al giorno d’oggi”, osserva Jancis Robinson, uno dei critici vinicoli meno ignoti al mondo “è annoverabile fra i vini industriali o globalizzati”.
Peraltro chi produce vini globalizzati spesso si trova a competere sul mercato con le industrie.
È il mercato che ha voluto vini simili? Il mercato più grande, cioè quello americano?
Quando si domanda a un produttore di Vernaccia perché vinifichi in barricche con l’intento di dare aromi poco originali ai vini, quello risponde che non è tanto per il gusto del mercato americano, quanto per il gusto della critica nostrana.
Forse è meglio domandare a Ceri Smith, che ha una delle più rinomate enoteche degli Stati Uniti, in quanto consacrata al vino italiano: Biondivino.
“Lei vende vini dal gusto americano?”
Io vendo italiani vini che sanno di vino italiano, anche se non è così facile scovarli. E conosco molte persone che sanno apprezzarli.
“Segue le indicazioni della critica, di Robert Parker ad esempio?”
No. Mi fido di più delle previsioni del tempo. Così posso venire in Italia, assaggiare i vini e proporli ai miei clienti.
“Che ne pensa dei Supertuscan, sono vini globalizzati?”
Ho messo un Bordeaux nella sezione che comunemente si pensa debba essere riservata ai Super Tuscan. Non vendo Super Tuscan. D’altronde se qualcuno vuole bere un Bordeaux, bevesse un Bordeaux, che a volte costa anche meno. Comunque i Super Tuscan, più che ai bordolesi, sono simili ai vini californiani: che io, pur essendo a San Francisco, non vendo”.