La cascata luminosa di Times Square si riversa alle sue spalle, senza soluzione di continuità. Più in basso, all’altezza del terzo piano, le notizie della Dow Jones corrono veloci, come un ruscello di montagna. Alessandro Rampietti, camicia bianca e jeans, barba curata e piglio sorridente, rilassato anche dopo una giornata piena di notizie, è felice.
E’ un impiegato di Al Jazeera, la televisione del Qatar. Di più, è il responsabile della sede di corrispondenza di New York. Si ritrova a gestire storie difficili, come il tentativo di far esplodere una bomba proprio lì, a pochi passi dalla sua redazione. Un lavoro adrenalinico: gestire immagini e parole che passano dal Bangladesh all’Inghilterra, per lo Zimbabwe e l’intero Medio Oriente.
Eppure “volevo lavorare alla Rai”, racconta il senior producer, che ha trentatré anni. “Andai a pranzo con una persona che ha un certo peso nella tv pubblica, il quale, dopo aver apprezzato le mie capacità e aver detto che ero bravo, mi chiese di indicare il mio protettore politico”, racconta Rampietti. Il giovane giornalista andò alla ricerca di un santo in paradiso, incontrando un senatore che, però, gli lasciò “l’amaro in bocca”. La stessa sera ne parlò con un altro collega della Rai: “Ascoltami – suggerì lui – vai alla Columbia University di New York, ti aiuto a trovare una borsa di studio”.
Così è stato, e dagli Stati Uniti Rampietti non è ancora tornato: ha trovato un lavoro che gli fa girare il continente, più certezze e più stimoli per il futuro. “In Italia non ci sono i soldi per viaggiare all’estero, considerato sempre in misura minore nei notiziari – racconta – non amo il modo in cui si fa televisione da noi, sembra una radio cui vengono associate immagini talvolta senza senso, mentre nel mondo anglosassone c’è più attenzione al racconto”.
Certo, ci sono bei programmi “come Report”, anche se “sono passati vent’anni ed è sempre la stessa cosa: sembra che manchi la voglia di innovarsi”. Ben diversa, ovviamente, la realtà ad Al Jazeera, realtà “internazionalista” e “globale” che si divide le scrivanie con l’agenzia Reuters, affacciandosi sulle stesse luci della piazza considerata l’ombelico del mondo.
La versione inglese della tv del Qatar “vuole mettersi al livello degli altri canali internazionali, concentrandosi però sulle storie del Sud del mondo, cercando di portarlo in serie A”. Questo non vuol dire, comunque, “che sia una televisione perfetta: in fondo è soltando un bebé di tre anni, ma le possibilità sono infinite, ed è un posto editorialmente libero”.
Fare giornalismo negli Stati Uniti non è comunque troppo lontano dagli anni romani di Rampietti. Un pizzico di avventura ci vuole, in ogni caso. Quando lavorava per Roma Uno, canale metropolitano della capitale, ogni cronista aveva un motorino ed una telecamerina. “Volevamo essere i primi a raccontare la notizia”, spiega. Anche ora bisogna andare a caccia delle storie più intriganti, intervistando gli abitanti delle periferie, a Bay Ridge, cercando di capire le ragioni profonde della crisi.
Dopo aver viaggiato in 28 dei 50 Stati americani e facendo parecchie incursioni in America latina, il producer di Al Jazeera osserva in maniera distaccata il giornalismo del nostro Paese: “Di solito si vuole mostrare quanto sono stupidi gli americani, o l’ultima novità di Hollywood, magari criticare Bush o lodare Obama”. Gli Stati Uniti, però, sono molto più complessi. I grandi temi, negli ultimi anni, non sono mancati: vanno “dal matrimonio omosessuale alla crisi manifatturiera e automobilistica”.
E a lui, che ha dato l’America? “La libertà, capire che significa la libertà”, risponde. Comunque, anche se sta bene a New York, non è detto che passerà il resto della vita nella Grande Mela. La famiglia, che può annoverare qualche immigrato negli Usa già nelle generazioni passate, rimane in Italia, un Paese che continua ad essere “incredibile: mi piace da morire”.
Matteo Bosco Bortolaso