di Marcello Ravveduto
Gennaio 1993. Il monte Pellegrino inaspettatamente è imbiancato. Piove. All’uscita della stazione, nel frastuono della città, un’inconfondibile lamento di sirene. Sembra di essere a New York in uno di quei film polizieschi anni ’70. No, è Palermo. Salto in autobus diretto a via Cavour. Davanti al numero 56 c’è una pattuglia della polizia. All’ingresso due uomini in borghese. La scorta. Sto per entrare, vengo fermato. «Giovanotto, dove va?» mi dice uno dei due. «Ho appuntamento con la signora Grassi». La risposta è sfrontata. I miei vent’anni mi portano a sottovalutare il difficile lavoro degli “angeli custodi“. Intanto arriva Pina sull’uscio. Mi accoglie con sorriso disarmante. Entro. Siedo tra i tessuti e tiro un sospiro di sollievo.
Da allora sono tornato spesso a Palermo in un ciclico divenire che di volta in volta mi prende e mi stravolge spingendomi nelle storie di donne e uomini la cui pelle odora di mafiosità. Una sera, in un locale notturno alla moda, nel frastuono della musica sparata a tutto volume mi si avvicina un amico che conosce la città fin dentro le budella e mi dice: «Lo vedi quello?» ed io «Embè?» e lui «È un killer del clan Madonia». Sembrava un giovane dei quartieri popolari, uno dei tanti che, terminato il lavoro in officina, si regala una serata in compagnia della solita comitiva. Sorseggiava il suo cocktail senza guardarsi intorno, con tranquillità. Nessun atteggiamento sui generis, né abbigliamento evanescente. Parlava con calma e accennava un sorriso quando la ragazza che gli sedeva accanto gli rivolgeva la parola. Segni particolari: nessuno.
È possibile che solo noi due sapessimo chi era e cosa faceva per campare? È possibile che tra i tanti avventori del locale non ci fosse nemmeno un poliziotto o un giornalista che lo conoscesse? Il rumore era assordante ma intorno a lui era quasi visibile un’aurea di silenzio. Ricordo di aver ricevuto un gomitata nello stomaco dal mio amico: «Lo stai fissando troppo, andiamocene!». Non ebbi nemmeno il tempo di replicare che già mi aveva trascinato fuori dal locale. Allora come oggi mi impressionò la sicurezza dell’impunità. Ho letto decine di libri e centinai di articoli che parlano di omertà, ma nessuno è riuscito a spiegarmi la “normalità” della mafia.