Alla fine ha cominciato a preoccuparsi persino il direttore di Libero Maurizio Belpietro. “Non vorrei”, ha scritto domenica, mettendo le mani avanti, “che i professionisti della polpetta avvelenata stessero provando a rifilare bidoni ai giornali impegnati in un’operazione trasparenza”.
Un chiaro segnale di come, anche tra i fedelissimi del Cavaliere, serpeggi sempre più forte l’impressione che puntare tutto sulla storia dell’appartamento di Montecarlo per far fuori (politicamente) Gianfranco Fini, sia stato un errore.
“Ecco i documenti che smentiscono Fini” aveva titolato sabato a tutta pagina Il Giornale riproducendo la ricevuta dell’acquisto di una cucina Scavolini da parte di Elisabetta Tulliani. Peccato però che il documento non dimostri niente.
La fotocopia racconta solo che la compagna del presidente della Camera ha acquistato dei mobili nel centro Castellucci, alla periferia di Roma. Non che quei mobili siano poi stati inviati nel principato di Monaco. E nemmeno le parole di Davide Russo – un “impiegato” del negozio che sostiene di essersi dimesso proprio per poter rispondere alle domande del quotidiano di via Negri senza mettere in imbarazzo i suoi datori di lavoro – riescono a chiarire il mistero.
Quando gli chiedono se davvero la cucina fosse diretta a Montecarlo lui risponde: “La certezza non posso averla”.
Insomma la pistola fumante, che già venerdì aveva spinto Vittorio Feltri a scrivere, “Fini mente: ecco la prova”, non c’è. E adesso l’ennesimo attacco a colpi di dossier e rivelazioni del direttore de Il Giornale al capo dei ribelli del centrodestra, minaccia di risolversi in favore di quest’ultimo.
Che cosa accadrà se nelle prossime ore, come giurano più o meno tutti i finiani, il presidente della Camera convocherà i giornalisti per mostrare l’ormai celebre cucina installata in un italianissimo appartamento?
Certo, la vicenda resta tutt’altro che chiara. La casa di Montecarlo è stata venduta sotto-costo. Il fatto che la occupi il troppo silenzioso fratello di Elisabetta Tulliani lascia aperta la porta ai sospetti. Ma l’affaire monegasco rispetto agli scandali e le inchieste, condite di circostanziate prove, in cui è rimasto invischiato il Cavaliere, è davvero poca cosa. E ora cominciano a pensarlo pure gli elettori del Pdl.
Certe campagne stampa per avere successo si devono risolvere nello spazio di un mattino. Il Caimano deve adocchiare la preda e sbranarla nel giro di un secondo. Perché una seconda possibilità non ce l’ha. Nemmeno se si chiama Berlusconi.
Non per niente anche i nuovi testimoni (l’ultimo un certo Luciano Care) sfoderati per dimostrare come Fini e compagna si siano fatti vedere assieme nel Principato, cominciano per molti ad avere il sapore di patacca. E il rischio sempre più concreto (per il premier) è che l’intera storia faccia la fine dell’assalto a Antonio Di Pietro del 1994-1996.
Allora Silvio Berlusconi, suo fratello Paolo e l’avvocato Cesare Previti si erano mossi personalmente per convincere una serie di sedicenti testimoni a presentarsi in procura a Brescia per incastrare l’ex pm di Mani Pulite.
Poi grazie alle intercettazioni e alle contro-indagini di Di Pietro saltò fuori che tutti loro, o quasi, avevano ricevuto in cambio qualche promessa dal Cavaliere. L’imprenditore Antonio D’Adamo fu addirittura ascoltato mentre si accordava per telefono con il leader di Forza Italia per ottenere molti miliardi di lire di affidamento da una serie di banche e degli appalti in Libia dal colonnello Gheddafi.
“Papà, ma tu sei riuscito a fare qualcosa per lui?”, chiedeva la figlia di D’Adamo al padre il 7 settembre del ’95. E l’imprenditore, prima di diventare il grande accusatore dell’ex Pm, rispondeva: “Certo Patrizia, c’è tutta una contropartita”. Più chiaro di così.
Anche per questo oggi è ovvio domandarsi quale sia (se esiste) la contropartita dei testimoni anti-Fini. E se emergeranno (cosa tutt’altro che improbabile) pagamenti o la garanzia di contratti o di posti di lavoro, il pasticcio in salsa previtiana, sarà completo.
Risultato: la campagna di agosto del Cavaliere che mirava a spingere almeno una decina di parlamentari finiani a tornare all’ovile fallirà. E Berlusconi si troverà a fare i conti con il problema Bossi.
Il senatur, è vero, continua a giurare di essergli fedele. Ma la macchina del fango e dei ricatti messa in moto dal premier, se non porterà alla scoperta di elementi che inchiodano davvero Fini, finirà per spaventare ancor di più gli elettori.
Già ora i sondaggi dicono che nel nord a fare il pieno di voti sarà la Lega. Questo, vuol dire che il Pdl in caso di elezioni anticipate, avrà trenta parlamentari in meno. E allora perché i deputati e senatori di Berlusconi dovrebbero accettare di andare alle urne solo per perdere le loro comode poltrone?
Agosto è ancora lungo, è vero. Ma i continui colpi di cannone che partono dalle corazzate mediatiche del premier e finiscono fuori bersaglio, sembrano avvicinare il Paese a un fatidico nuovo 8 settembre.
Quel giorno per la democrazia sarà un armistizio. Per il Cavaliere una sconfitta.