Rallenta il percorso di una direttiva dell'Unione Europea sul pluralismo dell'informazione. Gli stati non vogliono perdere sovranità, e i soliti noti cercano di ostacolarla
Chi dice che la libertà di informazione e il pluralismo dei media sono un problema solo italiano, mente. Lo dimostra il piano fatto di tre tappe lanciato dalla Commissione europea nel 2007 in risposta alle reiterate preoccupazioni espresse dal Parlamento europeo e dalle organizzazioni non governative per la concentrazione dei media in Europa e le sue ripercussioni sul pluralismo e sulla libertà di espressione.
“Per il processo democratico negli Stati membri e nell’intera Unione europea è fondamentale mantenere il pluralismo dei mezzi di comunicazione di massa, che affrontano oggi profondi cambiamenti e riforme dettati dalle nuove tecnologie e dalla concorrenza globale“, questo aveva affermato il 16 gennaio, in occasione del lancio del piano Ue, Viviane Reding, allora Commissaria per la società dell’informazione e i media. “Ciò presuppone una chiara comprensione della realtà giuridica ed economica in cui si muovono oggi i media europei, come intende fare il nostro piano in tre tappe“.
Ecco che questo piano aveva come obiettivo l’individuazione di indicatori chiari sul livello di pluralismo dei media nei 27 Paesi membri, pluralismo inteso nella sua accezione più ampia: dalla proprietà dei media all’accesso a informazioni di origine diversa, condizione essenziale affinché i cittadini possano formarsi un’opinione senza essere influenzati da una sola fonte dominante.
Il primo passaggio del piano di Bruxelles ha visto l’elaborazione da parte della Commissione delle azioni teoriche per promuovere il pluralismo dei media avviate da istituzioni e organizzazioni, in particolare dal Consiglio d’Europa, che con una raccomandazione agli Stati Ue nel gennaio 2007, ufficializzava alcune linee guida pro pluralismo tra cui “limitare l’influenza che una singola persona, una compagnia o un gruppo potrebbero avere in uno o più settori dell’informazione”.
Il secondo passaggio ha visto la stesura da parte di ricercatori indipendenti di uno studio che definisce e sperimenta un meccanismo di monitoraggio per valutare il livello di pluralismo dei media negli Stati UE identificandone le minacce. 166 indicatori raggruppati in tre macro-aree: giuridica (norme di legge, regolamentari, codici di autodisciplina), economica (numero di operatori attivi, concentrazione del mercato) e socio-demografica (accessibilità ai cittadini in base alla residenza, l’estrazione sociale, l’età, il sesso, ecc..). Questi indicatori sono utilizzati da un software, il Media Pluralism Monitor (MPM), che fornisce una vera e propria mappatura delle minacce che il pluralismo corre nelle sei aree di rischio individuate: libertà d’espressione, pluralismo culturale, politico, geografico/locale, proprietà/controllo dei media e tipologie dei mezzi di comunicazione.
Ad esempio, per quanto riguarda il “pluralismo politico”, si attribuiscono dei punteggi alfanumerici a una serie di indicatori (intromissione della politica nei media, influenza durante le campagne elettorali, controllo e proprietà dei media da parte di politici, indipendenza editoriale, dei media pubblici, delle agenzie e dei sistemi distributivi). Questi punteggi vengono quindi elaborati dal sistema, che alla fine attribuisce il livello di rischio totale di influenza politica nell’informazione.
L’ultimo passaggio del piano UE, doveva essere una comunicazione ufficiale della Commissione agli Stati membri su questi indicatori di rischio seguita da un’ampia consultazione pubblica. Questa comunicazione è attesa entro la fine del 2010, dopo l’insediamento della nuova Commissione, ma ad oggi, a oltre un semestre dalla nomina dei nuovi componenti della Barroso II (nominati dallo stesso José Manuel Barroso, riconfermato a presidente della Commissione dal Parlamento nel settembre 2009), non è stato fatto ancora nulla. L’impressione è che l’argomento stia pian piano scivolando sul fondo dell’agenda politica europea, e di certo non a caso, visto che molti Stati, tra cui l’Italia, guardano con occhio storto l’intromissione di Bruxelles nell’informazione nazionale e nella proprietà dei media.
E’ ancora fresca la memoria dell’acceso dibattito al Parlamento europeo sulla libertà d’informazione in Europa nella sessione plenaria dello scorso ottobre, che ha visto l’Aula letteralmente spaccarsi in due in occasione della votazione di una risoluzione presentata da liberali, sinistre e verdi che chiedeva un intervento UE per tutelare il pluralismo in Europa e, quindi, anche in Italia. Alla fine, la risoluzione non era stata approvata per soli tre voti, a causa del blocco del Gruppo Popolare (maggioritario al Parlamento e nel quale rientrano i 35 deputati italiani Pdl) e anche per l’inaspettato voto contrario dei deputati liberali irlandesi, che in seguito confesseranno ad alcuni colleghi italiani di “aver subito pressioni da Dublino” (Governo di destra). In quell’occasione, durante il dibattito in Aula e di fronte alla richiesta di una direttiva che regoli il pluralismo dei media a livello europeo, la commissaria Viviane Reding aveva dichiarato:“Si tratta di una questione fondamentale che deve essere discussa in modo approfondito. Ma prima ancora di iniziare, la Commissione dovrebbe poter contare sul sostegno di tutto il Parlamento europeo. E gradirei che quest’ultimo individuasse chiaramente quali problemi ritiene debbano essere affrontati in una simile direttiva”.
Un sostegno che sembra difficile da raggiungere in toto, visto che una simile direttiva obbligherebbe tutti i 27 Paesi UE ad omologarsi a standard europei di pluralismo come oggi avviene per altre politiche UE (ambiente, consumatori, diritti umani). Una decisione osteggiata soprattutto da quei Paesi con la più alta concentrazione di media, come l’Italia, la Bulgaria e la Romania, ritenute “parzialmente libere” da Freedom House nella sua classifica 2010 sulla libertà di informazione.
Ecco che nonostante il percorso iniziato dalla Commissione europea nel 2007, il pluralismo dei media rischia di diventare un discorso “tabù” anche in Europa, non da ultimo per il forte ostruzionismo di chi non vuole perdere competenze nazionali a vantaggio di Bruxelles, come i 35 deputati italiani Pdl, secondi in numero all’interno del gruppo politico dei popolari solo ai tedeschi (43). Quale sarà il destino del piano sul pluralismo dei media avviato dalla Commissione? Cosa conterrà la sua comunicazione finale? Che risvolti concreti si avranno negli Stati membri e in Italia? Domande importanti ma che rischiano di restare senza una risposta.