Cultura

Un pezzo di Mediterraneo in provincia di Cuneo

Mia moglie Ada era da più di un mese che puntava il tredici agosto.

Vengono i Radiodervish in Piemonte, mi aveva detto, a Bra: ci andiamo?

Ci andiamo.

Abbiamo lasciato con la nonna il più piccolo, Volpasso, anni cinque: lui era contento perché dice che gli fa vedere Walker Texas Ranger. Pazienza.

Gli altri due masnà, invece, sono venuti con noi: Il rosso, anni undici e Mafalda, anni nove.

Per strada, sulla Torino – Savona, abbiam trovato pioggia ma fatto in fretta e un’ora prima dell’inizio del concerto eravamo già lì, in piazza Caduti per la Libertà, a Bra.

Bra sembra proprio una piccola città di provincia benestante, con il suo bel centro storico ben tenuto, le boutique, i bar un po’ leccati. Forse perché è una piccola città di provincia benestante.

Il palco sta nella parte bassa della piazza e quando arriviamo i musicisti stanno facendo le ultime prove. Ci siamo quasi solo noi, ci piazziamo in prima fila, sulle seggiole pieghevoli e tiriamo fuori la nostra cena: panini al formaggio e acqua del rubinetto.

Ada mi dice: Dovevi portarti da scrivere e fare un’intervista.

Io però sono timido.

I musicisti scendono dal palco e ci passano davanti per andare anche loro a mangiare; li salutiamo con un cenno del capo e un sorriso, quasi ci conoscessimo.

Quando passa Alessandro Pipino gli dico una cosa originale tipo Noi vi aspettiamo, eh! Poi scambiamo due frasi sul tempo e sul fatto che potrebbe mettersi a piovere da un momento all’altro e mandare tutto in vacca, lui dice di no.

Mangiano nel dehors del ristorante che c’è di fianco al palco, così c’è proprio la sensazione di farsi compagnia a vicenda mentre aspettiamo l’inizio del concerto: loro per lavoro e per passione, noi per passione e basta. Mia moglie Ada porta Il rosso e Mafalda a fare una foto con Michele Lobaccaro e Alessandro Pipino: loro vorrebbero chiamare anche Nabil, ma sta ancora mangiando e mia moglie dice di lasciar stare.

Poi mangiamo un ricoperto alla violetta di Pepino che è la fine del mondo.

Il concerto inizia quasi puntuale, la piazza non si è neanche ancora riempita.

I pezzi che i quattro musicisti propongono sono per la maggior parte tratti dal loro penultimo album, Beyond the sea, che l’ultimo lavoro dei Radiodervish, Bandervish, non è molto comodo da portare in giro per le piazze: la rivisitazione di alcuni loro pezzi con la banda di Sannicandro (qualcosa come quaranta elementi).

Così partiamo, seduti saldi sulle nostre seggiole pieghevoli nere, per un viaggio nel Mediterraneo, nelle canzoni cantate in cinque lingue diverse (arabo, italiano, inglese, francese, spagnolo) da un Nabil Salameh fascinoso più che mai (almeno così dice Ada).

Pipino suona le tastiere, la fisarmonica e una spettacolare piccola clavietta che per soffiarci dentro senza sollevare le mani dai tasti tribola non poco: ci da dentro con un entusiasmo e una rapidità di gesti da artigiano.

Michele Lobaccaro al basso e alla seconda voce se ne sta da una parte, sul palco, come per non disturbare, ma hai l’impressione che sia grazie alla sua regia che i suoni e i ritmi si fondono, si armonizzano. Alla fine del concerto, infatti, Nabil lo chiamerà The director.

Dietro i tre, su una specie di piedistallo, sta seduto Davide Viterbo, elemento aggiunto alla band, che con il violoncello lega, amalgama, guida questi suoni e queste melodie mediterranee, catapultate dalla Palestina e dalla Puglia in terra di bugia nen piemontesi.

E la sera prosegue in stato di grazia perché pare che il resto della zona, tutto attorno, sia bagnato dalla pioggia, mentre nel rettangolo di cielo incorniciato dalla piazza di nuvole ce n’è poche, addirittura qualche stella. Ogni tanto si alza un po’ di vento e si intuisce un lampo in lontananza.

Ma niente, l’atmosfera tiene in tutti i sensi.

Jonas, Tancredi e Clorinda, Les Lions, You are my world, eccetera: ogni due o tre brani Michele e Nabil si alternano a commentare, a introdurre. Parole importanti che a esagerare sconfinerebbero nella retorica, ma che in bocca a loro, misurate, stanno bene. D’altronde se un musicista o un autore a caso dice che la propria musica nasce dall’incontro tra culture, e che questo incontro, questo dialogo, può essere reale solo se sei disposto a lasciare qualcosa di tuo all’altro, se a dire questo è un artista qualunque: è retorica; se lo dice Lobaccaro, uno che insieme ai suoi compari coltiva da sempre queste cose nei fatti, nelle collaborazioni culturali, nell’impegno civile e sociale sul territorio in cui vivono (la Puglia), nel viaggio (culturale e reale) attraverso le diverse sponde del Mediterraneo e delle civiltà che lo abitano: è autentico.

Si finisce con i pezzi più noti, i classici: Centro del mundo, Taci, Rosa di Turi, L’esigenza, La falena e la candela, a scaldarsi le mani per applaudire e perfino a far ballare un’estemporanea danza orientale a una ragazza del pubblico, che in un paio di occasioni va a esibirsi sotto il palco, anche se non proprio davanti a tutti, un po’ di fianco: sembra che non voglia disturbare o farsi troppo vedere; è una contraddizione in termini, ma siamo pur sempre in Piemonte.

L’ultimo pezzo è un omaggio a Domenico Modugno, Amara terra mia, con Nabil che suona dei sonagli a dito (lo so, avranno un nome specifico, ma non lo conosco …). Mia moglie ripete che è fascinoso da morire. Sarà, dico io.

Alle undici è tutto finito: giriamo attorno al palco a salutarli, i Radiodervish, quasi ci conoscessimo. Il rosso e Mafalda fanno la foto insieme a Nabil, che addirittura si scusa se prima del concerto non si era alzato per la foto. Stavo mangiando, dice.

I masnà sono stanchi e contenti; Mafalda mi dice sognante: Che bello il mio primo concerto.

Ce ne torniamo verso casa; dopo due chilometri di macchina ricomincia a piovere: siamo usciti da quel pezzo di Mediterraneo.