Un anno è passato da quando gli operai della INNSE di Lambrate hanno tenuto la ribalta milanese e sono stati protagonisti delle cronache nazionali estive con la conclusione vittoriosa della loro lotta. Una lotta per mantenere in vita la loro azienda, assediati dagli interessi immobiliari difesi dalla Moratti in vista di Expo 2015 e abbandonati dalla classe dirigente della Lombardia, con Formigoni, Bossi, Marcegaglia, Tronchetti Provera e soci latitanti se non addirittura ostili alla ripresa di una delle produzioni storiche dell’industria lombarda. Una ribalta sorprendente, presidiata da operai fieri del loro mestiere e orgogliosi dell’“odore del ferro” che attraversa i loro capannoni. Una ribalta tuttavia osteggiata a più riprese proprio dai Feltri e dai Belpietro che ci hanno costretti ad un Ferragosto 2010 a rincorrere “importanti” cucine e tinelli. Ricordo che, a fine luglio 2009, Maurizio Belpietro i si era speso nell’ultimo suo editoriale su Panorama (poi sarebbe passato a Libero) per il killeraggio dei 49 operai di Lambrate con un articolo pieno di livore che elogiava Brunetta così da unire le bastonature ai fannulloni del pubblico impiego alle sciabolate per i “garantiti della cassa integrazione”.
La vicenda dell’INNSE ha saputo inaspettatamente bucare gli schermi e ha, ancora oggi, molte cose da insegnare vista l’eccellenza che ha rappresentato un marchio sovraimpresso sui grandi torchi della Zastava a Kragujevec, della Volkswagen a San Bernardo, della Krupp nella Ruhr o della Lunakod a San Pietroburgo. L’estate scorsa, quotidiani e televisioni ci hanno mostrato l’orgoglio professionale e l’audacia tecnica delle tute blu, il rispetto dell’impresa per il sindacato, la garanzia dei diritti conquistati con le lotte, che sono stati la bussola di oltre un anno di presidi e occupazioni degli impianti. Operai rimasti soli contro industriali e manager che, interpellati, avevano sancito la fine irreversibile della fabbrica, hanno saputo indicare la via della ripresa e aperto una prospettiva professionale e occupazionale che oggi trova conferma con una ripresa del mercato e il raddoppio delle assunzioni.
Ho avuto la fortuna, prima da segretario della CGIL e poi da consigliere regionale, di seguire tutte le fasi di questa storia esemplare (due video ne riassumono le fasi salienti: http://www.youtube.com/watch?v=L3UZLFq4fow; http://www.youtube.com/watch?v=R1Gg1HFKtcw). Ho potuto così constatare l’incapacità di Formigoni di occuparsi di riconversione e specializzazione produttiva nella regione che ha tuttora 26 milioni di metri quadrati di aree dismesse senza uno straccio di politica industriale. Ho potuto verificare l’indisponibilità dei Rocca e dei Tronchetti Provera che trovano assai più interessante costruire cliniche private o procurarsi affari immobiliari che rischiare in imprese di qualità. Ho dovuto appurare di persona che solo il sindacato e un ex operaio tornitore bresciano – oggi diventato imprenditore – hanno saputo dialogare e trovare la soluzione. Manager prestigiosi interpellati davano forfait, esibendo conti da ragioniere e inerpicandosi sulle vette di considerazioni finanziarie, tutte smentite dalla fiducia nel lavoro buono e dignitoso, ambito e interpretato senza tentennamenti dagli addetti in carne ed ossa alle frese, ai torni, alle alesatrici, e ben capito da Camozzi, l’ex specializzato che diventava padrone proprio perché non chiedeva sconti sui diritti dei dipendenti.
In definitiva l’iniziativa delle maestranze è ruotata sempre attorno a punti fermi quali: mantenere l’eccellenza degli impianti a un livello inalterato, difendere contemporaneamente l’integrità del ciclo manifatturiero e il proprio potere contrattuale, tenere su un piano paritario e di assoluta autonomia la funzione del dipendente di fronte al padrone. Con queste premesse la INNSE è uscita dalla crisi, è rimasta competitiva, è tornata ad assumere. E mi viene naturale collegare questo evento alla vicenda FIAT di Pomigliano, all’arroganza ottusa dei Marchionne, alla subalternità incomprensibile dei Bonanni e degli Angeletti, ma anche, per fortuna, alla “schiena dritta” e alla stima per gli operai dei Landini.