A scartabellare vecchi giornali viene il magone, soprattutto se vi si è lavorato, ma si trovano a volte delle cose divertenti oltre che istruttive. Leggete qui: “Diconsi quattordici anni. Durante i quali la Rai ha mantenuto gli antichi privilegi (canone, diretta, deficit ripianato dallo Stato) e la Fininvest ne ha scippati vari per sé, complici i partiti, la Dc, il Pri, il Psdi, il Pli e il Pci, con la loro stolida inerzia, e il Psi con il suo attivismo furfantesco, cui si deve tra l’altro la perla denominata ‘decreto Berlusconi’ cioè la scappatoia che consente all’intestatario di fare provvisoriamente i propri comodi in attesa che possa farseli definitivamente. Decreto elaborato in fretta e furia nel 1984 ad opera di Craxi in persona, decreto in sospetta posizione di fuorigioco costituzionale, decreto che perfino in una repubblica delle banane avrebbe suscitato scandalo e sarebbe stato cancellato dalla magistratura in un soprassalto di dignità e che invece in Italia è ancora spudoratamente in vigore senza che i suoi genitori siano morti suicidi per la vergogna. Niente. Non soltanto non sono morti, ma sono ancora lì, in piena salute, a far danni alla collettività, col pretesto di curarne gli interessi, interessi che sarebbero gli stessi, secondo loro, del dottor Silvio di Milano due, il quale pretende tre emittenti, pubblicità pressoché illimitata, la Mondadori, un quotidiano e alcuni periodici. Poca roba .Perché non dargli anche un paio di stazioni radiofoniche, il Bollettino dei naviganti e la Gazzetta Ufficiale, così almeno le leggi se le fa sul bancone della tipografia? Poiché nemmeno il garofano, pur desiderandolo, ha osato chiedere tanto per l’amico antennuto, cosa che avrebbe impedito ogni spartizione per esaurimento del materiale da spartire, eccoci giunti allo sgradito momento della resa dei conti: il varo dei capolavori di Mammì, che non è il titolo di una canzonetta, ma il ministro delle Poste, colui che ha scritto sotto dettatura il testo per la disciplina dell’etere (L’Europeo, 2 agosto 1990).
Di chi è questa prosa scintillante e allegramente e ferocemente antiberlusconiana e anticraxiana? Di Vittorio Feltri. Era quello il Feltri che amavo, anarchico di destra, certamente, ma sul quale non era ancora passato il berlusconismo, col quale ho vissuto due stagioni straordinarie all’Europeo e all’Indipendente. Siamo due calciatori che hanno lo stesso linguaggio tecnico, anche se in ruoli diversi, e che si intendono a meraviglia. Anche quando lasciò l’Indipendente per il Giornale, e io l’avevo trattato ripetutamente da “traditore”, da “canaglia”, da “furfante” (e lui è permalosissimo, come una donna) tutte le volte che ho avuto bisogno di piazzare un pezzo che nessun altro giornale avrebbe osato pubblicare ho chiesto ospitalità a Feltri. Perché tutto si può dire di Vittorio tranne che non abbia l’intuitaccio del giornalista, quello delle Fallaci, dei Montanelli, dei Malaparte, insomma dei grandi e dei grandissimi del nostro mestiere.
La stagione veramente indimenticabile è stata quella dell’Indi. Nel giro di un anno e mezzo, dal marzo del ‘92 all’autunno del ‘93, passammo, sotto la sua direzione, dalle 19500 copie cui l’aveva lasciato l’ectoplasma similanglosassone Ricardo Franco Levi alle 120 mila, una cavalcata che non ha precedenti nella storia del giornalismo italiano (speriamo che il record possa essere superato dal Fatto, che per molti versi, anche se qualcuno storcerà il naso, si apparenta a quell’Indipendente. Travaglio dice che ci siamo vicini, ma sull’entusiasmo di Marco bisogna fare sempre un po’ di tara).
Gli inizi furono difficilissimi. Si diceva che il giornale avrebbe chiuso ad aprile, dopo un mese. Ma vennero le elezioni del 5 aprile con la travolgente avanzata della Lega. E sia Feltri che io, quando stavamo ancora all’Europeo, eravamo stati fra i pochissimi giornalisti, con Giorgio Bocca, a guardare il fenomeno Lega con quell’attenzione che sempre si dovrebbe alla realtà senza pregiudizi e sciocche demonizzazioni, e ci trovammo quindi in “pole position”. La vittoria della Lega scatenò Mani Pulite e Mani Pulite scatenò l’Indi, anche perché gli altri giornali, tutti compromessi col vecchio regime, avevano il freno a mano tirato. Inoltre, con la caduta della Prima Repubblica, molti lettori avevano perso i loro punti di riferimento e venivano da noi. Così potevamo scrivere le cose che gli piaceva sentirsi dire ma anche le cose che non gli piaceva sentirsi dire.
Il giornale era tendenzialmente liberista ma io vi scrivevo i miei pezzi anti-mercato e antindustrialisti e questo portava un altro tipo di lettori. Arrivarono editorialisti da ogni dove, di destra e di sinistra. Fare parte del giro dell’Indi era diventata una moda. Feltri orchestrò magistralmente questa polifonia di voci. Il giornale manteneva una sua fisionomia inconfondibile: quella del suo direttore, che si era inventato il “feltrismo”. Davanti a noi si stendevano praterie. Se Montanelli veniva via dal Giornale (col quale eravamo già in fase di sorpasso), come pareva inevitabile, ci sarebbero arrivati altri 30 o 40 mila lettori senza colpo ferire. Feltri si lamentava che Zanussi non era un vero editore, che non capiva nulla, che non gli dava i rinforzi necessari. Io replicavo che l’assoluta libertà di cui godevamo (quando fu arrestato l’amministratore del nostro giornale sparammo la notizia in testa alla prima pagina) era un “fattore del prodotto” più importante dei rinforzi. Eravamo un po’ sgangherati, certo, ma liberi.
E questo il lettore lo percepiva e ci passava sopra. Insomma, per parafrasare l’Hemingway di Festa mobile, quelli erano “i bei tempi andati, quando eravamo molto poveri e molto felici”. E lo era anche Vittorio che pur, di suo, ha una natura profondamente melanconica.
Ma qualcosa cominciò a scricchiolare già nell’agosto del ‘93 quando Feltri mi invitò a cena e mi pose la terrificante domanda: “Se vado al Giornale vieni con me?”. Cercai di spiegargli che era un errore, sia in termini generali sia per lui (cosa che successivamente, dopo che ad ogni incontro lo ulceravo con questa questione, ha finito, sia pur a denti stretti, per ammettere). Finimmo quella cena un po’ brilli di vino bianco e col suo grido: “In culo al Berlusca, restiamo all’Indi!”. Questa scena si ripeté almeno altre due o tre volte. Il giorno dopo l’ultima, conclusasi con lo stesso rituale, firmava per Berlusconi. Dopo è cambiato tutto. Era stato un fan senza riserve di Antonio Di Pietro (che chiamava affettuosamente “Tonino”) e di Mani Pulite, con eccessi, lui sì, forcaioli, e divenne nemico acerrimo della Magistratura. Non c’era errore, vero o presunto, di magistrato fosse stato commesso pure in Nuova Zelanda (non dico per dire, c’è stato anche questo) che non fosse sbattuto in prima pagina con critiche feroci e sarcastiche. Divenne un “garantista” a 24 carati (salvo dimenticarsi bellamente di ogni garantismo ora che, per ragioni di scuderia, ha scatenato la “caccia all’uomo” nei confronti di Gianfranco Fini). Era stato un sostenitore appassionato della Lega e le voltò da un giorno all’altro le spalle quando Bossi nel ‘94 abbatté il governo Berlusconi con quello che resta il suo miglior discorso in Parlamento. Mi ricordo che dopo quell’avvenimento ci trovammo insieme a un dibattito a Bergamo con una platea zeppa di leghisti che lo attaccavano pesantemente come “traditore” e “voltagabbana”.
Io lo difesi a spada tratta ricordando a quella gente che comunque aveva un debito di riconoscenza con Feltri che aveva difeso la Lega in tempi difficili. E Vittorio, di nascosto, sotto il tavolo, mi prese la mano in segno di riconoscenza. Era anticraxiano e, in omaggio ai trascorsi del Capo, divenne filocraxiano. Insomma nella seconda parte della sua vita ha sconfessato tutta la prima. Uno sfacelo.Io ho affetto per Vittorio Feltri e lo considero il miglior direttore di giornale della sua generazione e anche di un paio precedenti. E mi fa male al cuore vederlo ridotto a un pitbull di Berlusconi, senza una vera ragione (perché Feltri, checché se ne pensi, non è un vero cinico, alla Giuliano Ferrara per intenderci), vederlo sprecare il suo grande talento per un uomo che non lo merita e non lo vale. Ma così è. Così è la vita che ti costringe, via via, a lasciare anche i compagni che ti sono stati più cari.