di Marcello Ravveduto
Il 16 marzo di quest’anno il boss della ‘ndrangheta Pasquale Manfredi è stato “beccato” mentre era collegato a Facebook. “La Repubblica” scrive: «Fatale per lui la sua passione per internet. Manfredi, infatti, aveva un profilo su Facebook e si faceva chiamare ‘Scarface’, come il trafficante di cocaina interpretato da Al Pacino nel film diretto da Brian De Palma. Per collegarsi usava una chiavetta». Perché ci interessa questa notizia? Al di là delle modalità inusuali che hanno condotto alla cattura del latitante ciò che più colpisce è il manifestarsi di un nuovo scenario pieno di incognite: la penetrazione della mentalità criminale nei social network.
Una canzone in particolare, come ha ricordato Enrico Fierro su Il Fatto, ha destato l’interesse della stampa nazionale perché è stata oggetto di censura del social network Youtube. Si tratta del video di una canzone neomelodica dal titolo significativo ‘O capoclan. Il cantante, Nello Liberti, è in giro sulla motocicletta (una citazione dal video di Nu Latitante di Tommy Riccio). La canzone comincia: «Per quest’uomo non esiste la libertà/ Per l’onore si nasconde la verità». In due frasi si condensa il senso antropologico dell’omertà. Gli uomini del clan sono sempre pronti a ricevere i suoi ordini che (svelando come i resoconti della cronaca influenzino i parolieri) giungono attraverso un pizzino. Si tratta di eseguire «la condanna per chi ha sbagliato». Il boss ha il dovere di far rispettare la legge criminale per difendere gli interessi della «famiglia», ovvero il clan. La definizione del clan come famiglia è una implicita apologia sociale derivante dal ruolo paterno. Il capoclan è stato indotto a prendere una strada sbagliata dallo stato di necessità: non ha potuto studiare, ha cercato di lavorare per sollevare la famiglia dalla miseria, ma non è risuscito a sopportare questo peso, cioè guadagnare poco per un lavoro onesto. Dio, allora, magnanimamente, lo ha illuminato indicandogli il percorso per la “salvezza”. Il video termina con un blitz della polizia. Il capoclan, ripreso dietro le sbarre di una cella, proclama: «E tutte le sere, guardando una fotografia,/abbraccio le sbarre, osservo le stelle/e parlo a Dio./Dio, mi raccomando, proteggi i miei figli/E se qualche volta tu non puoi farlo, non preoccuparti proprio, che ci penso io!/ Io, Io che sono il capoclan». Il paroliere, C. Nocerino, costruisce una metafora in versi in cui la figura del boss trascende il suo essere criminale: il potere del capo discende dalle sue qualità di buon padre di famiglia e dal volere di Dio. Risibile e terrificante allo stesso tempo.
La canzone, oltre a giustificare le attività criminali del clan e a mostrarne le dinamiche, presenta un sistema di valori in cui il rispetto per la camorra è associato all’ossequio dovuto a Dio e alla famiglia. La terna Dio, patria e famiglia muta in Dio, camorra e famiglia. La camorra, allora, per chi si identifica in questa canzone è elemento naturale di identità, alternativa plausibile ad una vita di stenti ed ignoranza. Orgogliosamente viene mostrato alle fasce disagiate (molte delle quali occupano lo stesso spazio residenziale delle famiglie degli affiliati) che si può accedere al benessere e al potere pur non avendo studiato e né provenendo da famiglie agiate. ‘O capoclan è il fulcro di una classe dirigente parallela che ha sostituito la patria con la camorra.