Cultura

Colloquio con Luca Guadagnino
“Il Cinema non può essere ucciso”

Il regista, giurato veneziano a fianco del mito Quentin Tarantino, parla del Festival e dell'exploit statunitense del suo film con Tilda Swinton

di RQuotidiano

Le valigie di lungo viaggio nel sud della Svezia in un angolo, l’eloquio appassionato, una piccola casa che molto ricorda delle origini italosiculoalgerine di Luca Guadagnino, regista/sceneggiatore/produttore, 39enne scelto da Marco Muller per dividere opinioni e valutazioni nella giuria veneziana guidata da Quentin Tarantino. “Sono un apolide con un piede sempre piantato su una linea di confine. Ho sempre vissuto con marginalità la mia posizione nel mondo”. Lo scorso anno a “Io sono l’amore”, melodramma spiazzante sui segreti del sentimento altoborghese nel cuore di una asfittica dinastia milanese, il Lido offrì platea e consensi. Oggi il film, passato ad oltre 50 festival (Sundance, Berlino e Toronto compresi) venduto in 33 Paesi, distribuito sciattamente in Italia nella passata primavera trionfa negli Stati Uniti. Milioni di dollari che trasformano il rospo in principe (e ne fanno il secondo incasso italiano degli ultimi dieci anni dopo “Pane e Tulipani”), definito da Variety “un’opera straordinaria” ha ricevuto dal selettivo “New Yorker” due pagine di recensione adorante del guru Antony Lane e da settimane non c’è periodico, quotidiano o blog che non pronunci la parola  Oscar. I am love funziona di più di Io sono l’amore ma è lo stesso  film.

Come si spiega la metamorfosi?
Provammo a produrre “Io sono l’amore” con chi aveva davvero i denari, senza fortuna. Bussavamo convinti della validità del progetto, ricevendo silenzi eloquenti. Poi convincemmo Mikado ottenendo anche l’aiuto di Rai Cinema e il fondo ministeriale. Sulla carta Mikado, avrebbe potuto fare molto. Poi arrivò Venezia 2009. Quindi eravamo pronti all’uscita quando Mikado passò in gestione, in uno strano interregno, a Franco Tatò e a Sonia Raule.

Problemi?
Il Cinema ha bisogno di amore, umiltà e dedizione. Le esigenze di tagliare, ristrutturare, snaturarne la vocazione non servono.  Il destino di “Io sono l’amore” iniziò a piegare verso il basso. Non si sapeva più come e quando sarebbe uscito: poi arrivò in sala con una scarsissima promozione. Poche copie,  nessuna  lungimiranza.

Lungimiranza?
Sotto le spoglie di una storia d’amore, il mio film è anche un racconto sull’ inamovibilità del potere patriarcale. Alla prima il parterre degli invitati era composto dallo stesso tipo di persone che si muovono nel racconto. Si sono osservati, forse riconosciuti e ovviamente hanno detestato l’opera.

Molti critici si si concentrarono sull’ipotesi che i Recchi fossero gli Agnelli. Provincialismo?
Quello è il cosiddetto colore giornalistico, usato senza fantasia per raccontare ciò che si riteneva potesse interessasse di più. Non so se si chiami provincialismo, ma so che l’Italia di oggi si muove sul crinale di un abisso indescrivibile.

Provi a raccontarlo.
La decadenza morale che noi italiani abbiamo subito – con complicità non secondarie da parte di tutti noi – ha trasferito l’immaginario delle televisioni commerciali nel Paese Reale, creando un deserto.

Sembra che Vittorio Feltri, abbia definito il film: “La nemesi di una troia russa”.
Bisognerebbe chiedere a Vittorio Feltri perché ha paura delle donne.

La borghesia dipinta da “Io sono l’amore” non è quella dei furbi e delle cricche.
Non parla di quei mondi, non c’è dubbio. Perché la borghesia che racconto non esiste più avendo scientemente consegnato se stessa a un potere economico, cresciuto negli anni ’80, di cui Berlusconi è il rappresentante terminale. Un incantesimo vuoto.

Quanto conta in questo processo Villa Necchi, uno dei palazzi più belli di Milano?
Ho cercato il set per tantissimo tempo. Finché non ho visto una foto di questa Villa, costruita da Piero Portaluppi verso il finire degli Anni ‘30. Alla vigilia della guerra i Necchi, una famiglia dell’imprenditoria lombarda, investe una somma enorme nella costruzione di una sorta di mausoleo. E poi ci abita, da feste esclusive a bordo piscina quasi come coloro che brindavano mentre affondava il Titanic. Era un luogo profetico: questa crisi dei tardi Anni ’30 mi sembrava potesse risuonare in quella nostra, nel nostro presente.

Quest’anno lei al Lido è in giuria: un risarcimento?
No. La collocazione in “Orizzonti” era una mossa giusta e che appartiene al mio  modo di pensare. Ogni tanto sono tentato di pensarla come Jeanne Moreau quando dice: “Da quando ho capito che la maggioranza ha sempre torto, mi piace stare con la minoranza”.

E ai film italiani in concorso, da sempre, tocca la gogna.
A Venezia c’è quest’orribile abitudine non cinefila dell’aggressione pseudogoliardica ai film italiani che vengono proiettati in sala. Non accade in nessun altro festival del mondo.

Dividerà il tempo con Tarantino.
Grandissimo maestro e grande giuria. E poi ho un debole per Arnaud Desplechin, uno dei miei registi favoriti. Posso dirlo? Per me essere in giuria è un onore lunare, pari ad aver girato un film importante.  Marco Muller mi chiese già lo scorso ottobre se fossi disponibile. Credo perchè sa che  non ho nessuna forma di pregiudizio e che sono capace di farmi attraversare dalla bellezza.

In molti pensano che l’Italia dovrebbe sceglierla per rappresentarci per l’Oscar al miglior film in lingua straniera, e lei?
Non spetta a me dirlo ma il successo e l’affetto straordinario che “Io sono l’amore” riceve negli Stati Uniti e a Hollywood sono un segno importante. Le sale in cui è proiettato a LA registrano ancora dopo dieci settimane di programmazione, regolarmente il tutto esaurito. Però, mi fermo qui.

Ha provato rancore in questi mesi?
Non è il mio modo di pensare e vedere la vita. Che io giri una scena, faccia una passeggiata, cucino l’attitudine non cambia. L’ho imparato da Bertolucci che esorta sempre ad abbandonarsi alla “joie de vivre”, in primo piano io metto sempre il piacere, ciò che amo e coloro che amo.

Dieci anni fa diceva: “La critica cinematografica italiana, semplicemente non esiste”. Oggi?
(Ride) Davvero ho detto questo? Direi che siamo passati dal cinema degli autori, confusi spesso con la letteraria firma del copione, al cinema che conta perchè ha successo. Allo stesso modo i giornali sono passati dal dedicare ampio spazio all’esercizio della critica a fare solo “colore e pubblicità”. Ma esistono molte grandi personalità della critica anche in Italia.

Cosa pensa del cinema italiano?
Il Cinema è un linguaggio che non ha territori. E’ una nazione che non conoscendo geografia non ha confini e frontiere.  Detto questo il nostro è in salute e il ricco calendario di Venezia 67, tutte le sezioni comprese, è lì a dimostrarlo.

Fuori i nomi.
Garrone, Frammartino, Sorrentino, Tizza Covi/Rainer Frimmel de la Pivellina, Noce, la Guzzanti, i documentari di Savona che in Francia sono amatissimi, una maturità di testi che ti fa venir voglia di pensare e sperare gli anni ’60 quando a Cannes, l’Italia portava regolarmente tre o quattro capolavori in competizione.

E Venezia?
In concorso, per l’Italia, gareggiano quest’anno personalità affascinanti e percorsi che dal tradizionale  all’eretico, non abbandonano nell’ombra nessuna poetica. Sono cineasti che interpretano l’inatteso e vitale scudo artistico di fronte alla reiterata, assassina, esplicita distruzione del cinema italiano operata dal governo Berlusconi. I cineasti sono anguille che nella rete non vogliono finire e chi le pesca per ucciderle rimarrà a lungo a digiuno.

di Malcom Pagani e Silvia Truzzi

da Il Fatto Quotidiano del 29 agosto 2010

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