«Quel convegno lo organizzammo anche perché qualche giorno prima davanti al Comune avevano manifestato disoccupati con dei cartelli dove c’era scritto che la mafia dà lavoro, racconta Pina Grassi. Furono invitate duemila persone, ne arrivarono venti. Non abbiamo avuto più alcun dubbio: eravamo soli».

A introdurre quella tavola rotonda fu proprio Pina Grassi: «Noi ci battiamo per ripristinare un’armonia tra l’uomo e la natura che non può prescindere da una condizione di vita che consenta al lavoratore di lavorare, ai cittadini di essere liberi dalla continue pressioni che portano inevitabilmente a un decadimento della qualità della vita. Noi crediamo che non ci possa essere sviluppo senza una “tranquillità ambientale”.»

Degli interventi di quel convegno che furono pubblicati durante la breve esistenza dell’Osservatorio Libero Grassi, chiuso per problemi di fondi, voglio riportare passi del discorso del rappresentante dei piccoli imprenditori palermitani, Giuseppe Albanese. Il suo pensiero oggi non verrebbe espresso così sfacciatamente, credo. Quello di cui sono convinta però è che questo pensiero appartiene ancora oggi a troppi industriali del Sud e del Nord che in Meridione pagano il pizzo. Perché se è vero che non siamo all’anno zero nella lotta al racket, se è vero che sono stati compiuti passi importanti, è anche vero che tanti imprenditori e commercianti nel loro bilancio di spese mettono anche la tangente alla mafia.

Secondo l’ultimo rapporto della Confesercenti la «Mafia Spa» si conferma come la prima azienda italiana con 130 miliardi di euro di fatturato in un anno.

Sempre secondo lo stesso rapporto, ogni giorno 250 milioni di euro passano dai conti di imprenditori e commercianti a quelli della criminalità organizzata.

«Perché parlare sempre di mafia e non sentire mai da quando siamo qui, che ci sono altri problemi? – disse accorato Giuseppe Albanese –. Perché si deve accettare che sia giusto solo parlare dei casi in cui qualcuno riceve “attenzioni”, qualche fabbrica o qualche macchina salta in aria, mentre invece nessuno dice niente se le banche fanno chiudere le fabbriche?… Cos’è più grave, se la mia fabbrica salta con il tritolo o dover sottostare all’angheria, se ricorro a una banca, di pagare di più di quello che pagano gli altri in altri posti d’Italia?… Questa è mafia, se l’impresa che si organizza non riesce a trovare lavoro; se non è mafia questa, che cos’è mafia? »

Rispose Libero Grassi : «Ma la collusione con le imprese mafiose distorce il compito dell’imprenditoria sana, perché essere collusi con le imprese mafiose non consente di svolgere una parte attiva nella società, di costruzione insieme di sviluppo e di civiltà… Bisogna trovare una soluzione, ma per questo occorre concretezza, non fare difese a oltranza, perché contrariamente al professor Albanese, io credo nei giornalisti, perché sono stati uccisi per le nostre battaglie. Il professor Albanese non dimenticherà: Fava di Catania, Mario Francese di Palermo, sono testimoni della verità.»

In un’intervista del numero maggio-giungo 1991 della rivista «Argomenti» Libero Grassi parla del sua solitudine: «Non è accaduto niente nemmeno a livello nazionale. Nei giorni della mia denuncia è arrivato in Sicilia il direttore di Confindustria che, per coprire la posizione di timidezza e di prudenza di alcuni miei colleghi, ha avuto la sfortuna di rilasciare una dichiarazione quasi comica. Grosso modo ha detto infatti che la mafia non tocca l’industria, semmai a volte il commercio. Ma lo ha detto proprio mentre il magistrato Luigi Russo depositava la clamorosa e discussa ordinanza di assoluzione dei cavalieri del lavoro… È necessaria una svolta… e non sono il solo. C’è l’ingegner Salatiello che, però, da un imprenditore si è sentito rimproverare perché è meglio pagare, in quanto “se tutti pagano, si paga meno” ma questa è un’aberrazione… Ho messo nel conto ulteriori intimidazioni. Sono arrivate. Ma non credo che passeranno alle armi. A loro non conviene il clamore. Spero che non convenga. La polizia sarebbe costretta a intervenire.»

«E l’accusa di protagonismo?»

«Ma che strano esibizionista… Un esibizionista che fino a sessantasette anni aveva mantenuto l’incognito». (segue)

Arriva l’estate, Alice Grassi, la figlia di Libero, si sposa. Va in viaggio di nozze in Spagna ed è lì che la sua vacanza d’amore si trasforma in un incubo. La rintraccia l’Interpol per dirle che suo padre è stato ucciso.

«Erano le 7.30 del mattino – ricorda Pina Grassi –. Era un giovedì. Mio marito uscì di casa per andare alla Sigma e organizzare la riapertura post ferie. Invece all’angolo di casa gli sparano alle spalle cinque colpi di pistola. Io l’avevo accompagnato in ascensore per un saluto e per riprendere una nostra precedente discussione su una pianta del terrazzo. Lui si era lamentato perché l’avevo potata e io gli feci notare che invece la potatura le aveva fatto bene. Tutta orgogliosa gli dissi: “Hai visto che la pervinca sta rigettando i fiori?” Lui sorrise. Furono le nostre ultime parole. Poco dopo sentii i colpi di pistola ma non pensai che fossero per mio marito. In quegli anni sentire gli spari a Palermo era normale. Al citofono qualcuno però mi chiese se mio marito fosse in casa e in quell’istante capii, mi precipitai nell’androne e mi bloccai. Non volli vedere Libero morto, d’istinto non volli vedere come lo avevano ridotto e sono contenta di non averlo fatto».

È durissimo ricordare quel giorno, Pina Grassi per alcuni momenti cambia discorso, mi parla del suo rapporto con il marito, degli anni felici della sua famiglia: «Ci siamo sposati nel 1956, siamo rimasti insieme per trentacinque anni. Siamo stati una coppia litigiosa per il carattere forte di entrambi, ma salda. Quando a unirti, come nel nostro caso, ci sono i principi, il legame è indissolubile. Eravamo partecipi della vita sociale della città, eravamo stati entrambi radicali, Marco Pannella, Adele Faccio, Emma Bonino li frequentavamo molto. La nostra casa, che abbiamo costruito a nostra immagine, era sempre piena di ospiti. I nostri figli l’hanno sempre invasa di amici. Spesso la via sotto casa era un tappeto di motorini degli amici di Alice e Davide.

«La casa l’ ho progettata io che sono architetto e che non ho potuto fare l’urbanista perché ai tempi del sacco di Palermo era impossibile. Palermo di Ciancimino e Lima diventò da conca d’oro, perché c’erano gli agrumeti, una conca di cemento.»

Torniamo all’orribile 29 agosto: «Io rimasi impietrita dal dolore, con la testa fra le mani. Chiamai mio figlio Davide. Toccò a lui vedere Libero… steso per terra.»

Il funerale laico, perché così avrebbe voluto Libero Grassi, si celebrò all’arrivo dalla Spagna di Alice Grassi: «Mia figlia mi disse una frase che esprimeva tutto il suo dolore e la sua rabbia: “Questa è una città che non merita bambini.” Per cinque anni mantenne fede a quanto detto. Poi però, per fortuna, è nato Alfredo Libero. Più che un nome, un aggettivo, come diceva il nonno, che non ha potuto conoscere il suo unico nipote.»

Il giorno del funerale non potrò mai dimenticarlo, come tanti italiani. Ancora una volta dovevo raccontare per Radio Popolare la cronaca di un morto ammazzato dalla mafia trasformato suo malgrado in eroe dalla solitudine istituzionale e sociale, in cui era stato cacciato.

Mi ritrovai, cercando di imprimere nella mia mente ogni particolare, vicino a Davide Grassi che con una mano faceva il segno di vittoria, mentre portava insieme ad altri la bara di suo padre sulle spalle. Ricordo alcuni commercianti di Capo D’Orlando, in testa Tano Grasso, che allora aveva costituito l’Acio, la prima associazione antiracket che denunciò gli estorsori e ottenne le loro condanne.

Sul luogo dove Libero Grassi è stato ucciso, in via D’Annunzio, angolo via Alfieri, un foglio con la scritta voluta dalla famiglia che ha rifiutato la lapide ufficiale: «Qui è stato assassinato Libero Grassi, imprenditore, uomo coraggioso, ucciso dalla mafia, dall’omertà, dall’Associazione degli industriali, dall’indifferenza dei partiti e dall’indifferenza dello Stato.»

Lo Stato, in ritardo come sempre, solo dopo l’omicidio di Libero Grassi agisce

Il Governo vara un decreto legge, il decreto Grassi, che garantisce un risarcimento del danno economico subito per imprenditori e commercianti che denunciano gli estorsori.

Michele Santoro, che il giorno dell’omicidio si trovava all’estero, apprende della morte di Libero Grassi leggendo i giornali su un aereo che lo stava riportando a Roma. È scosso, vuole fare assolutamente qualcosa. Telefona a Maurizio Costanzo, insieme riescono a convincere i vertici di Rai e Fininvest a organizzare per il 26 settembre una staffetta televisiva contro la mafia e per Libero Grassi.

Dal teatro Biondo di Palermo, dove sedici anni dopo verrà inaugurata l’associazione Libero futuro, trasmette Michele Santoro e dal Parioli di Roma, Maurizio Costanzo. Tra gli ospiti, Giovanni Falcone, l’avvocato Alfredo Galasso, Claudio Fava.

La trasmissione, nonostante ci sia stata da neppure un mese un’altra vittima innocente di mafia, scatenerà polemiche strumentali contro «i malati di protagonismo dell’antimafia».

La famiglia Grassi fa una scelta di riserbo, non va in televisione, ma invia un ricordo videoregistrato di Alice. La figlia dell’imprenditore ucciso legge una poesia di Apollinaire, La partenza, «che è sempre stata la nostra poesia, perché quando ero piccola leggevo sempre le poesie di Apollinaire e la versione di La partenza che reciterò è la sua versione, è una sua versione dal testo in francese. A mio padre: La partenza – I loro visi pallidi i loro singhiozzi si erano spezzati come la neve sui puri petali come i miei baci sulle tue mani cadevano le foglie d’autunno. – Da Alice, Davide e mamma».

Il killer di Libero Grassi, Salvatore Madonia, è in carcere. La seconda sezione penale della corte di Cassazione il 18 aprile del 2008 ha confermato l’ergastolo. Pena definitiva anche per altri ventisette boss tra cui Totò Riina, Bernardo Provenzano, Raffaele Ganci. Il processo riguarda gli oltre mille omicidi che hanno insanguinato Palermo tra l’81 e il ’91. Amaro paradosso: lo Stato, poiché risultano nullatenenti, dovrà pagare l’avvocato che ha difeso Antonino e Giuseppe Madonia, fratelli di Salvatore e figli del defunto capomafia Francesco Madonia.

Pina Grassi esprime un legittimo desiderio: «Ho sempre creduto nella giustizia, la sentenza finale è arrivata, ora mi aspetto che i killer paghino fino in fondo la loro pena per aver ucciso mio marito e per aver commesso innumerevoli altri crimini. Non voglio che escano dal carcere. Sono relativamente soddisfatta che abbiano l’ergastolo, soddisfatta razionalmente per l’epilogo logico della giustizia, ma non emotivamente perché Libero non c’è più. Togliendo la vita a Libero, la mafia ha punito mio marito e ha danneggiato la società.»

Nel pronunciare queste parole comincia a ricordare i mesi, gli anni dopo la scomparsa del marito: «La Sigma era Libero, che ne aveva fatto un’azienda pura, senza contributi pubblici, molto personalizzata. Dopo la sua morte per noi ci fu un forte sbandamento. L’allora ministro dell’Interno Scotti insieme a Marco Pannella fecero intervenire la Gepi che rilevò la Sigma lasciando alla nostra famiglia il cinque per cento. I manager statali riuscirono però in tre anni ad accumulare 3 miliardi di lire di debiti. (segue)

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