Di seguito pubblichiamo la biografia dell’imprenditore siciliano tratta dal libro “Lotta civile”
di Antonella Mascali
Libero di nome e di fatto. Libero per sempre, fino alla morte.
Era un uomo che credeva profondamente nella democrazia, Libero Grassi, nel rispetto delle regole, nella libertà, anche di impresa a cui teneva moltissimo, lui che di mestiere faceva proprio l’imprenditore da più di quarant’anni. Fu ucciso sotto casa sua. Colpito alle spalle, il mattino del 29 agosto del 1991.
Libero Grassi fu ucciso perché era solo nella sua battaglia contro il racket. Né i suoi colleghi, né tanto meno Confindustria l’avevano appoggiato nella sua scelta di denunciare e di non pagare i mafiosi. Anzi lo avevano osteggiato, isolato, additato come l’unico che aveva compiuto quel passo. Aveva esagerato. Accanto a lui c’era soltanto la sua famiglia, sua moglie Pina e i figli Davide e Alice, e un gruppo di amici.
Meglio tardi che mai: tredici anni dopo, a Palermo è nato il comitato Addiopizzo, e sedici anni dopo la prima associazione antiracket di commercianti e imprenditori che, per rendere onore a Libero Grassi, si chiama Libero futuro. La Confidustria siciliana, su iniziativa del presidente Ivan Lo Bello, ha varato un codice etico che prevede l’espulsione degli associati che pagano il pizzo. Come i suoi colleghi Giuseppe Catanzaro, Antonello Montante, Marco Venturi e altri imprenditori che si sono ribellati al racket, Lo Bello vive sotto scorta.
Andrea Vecchio a Catania e Rodolfo Guaiana a Palermo hanno visto in fiamme le loro attività per ritorsione. La storica “Antica focacceria San Francesco” di Palermo è tutelata dai carabinieri e il proprietario Vincenzo Ponticello è sotto scorta per non aver pagato il pizzo e per aver testimoniato al processo contro gli estorsori.
Il presente e il passato si mescolano e forse senza la lotta, senza il sacrificio di Libero Grassi questo presente non potrebbe esserci.
Presidente onoraria di Libero futuro è Pina Maisano Grassi, che per raccontarmi della battaglia di suo marito, di quello che sta accadendo da pochi anni a Palermo mi riceve nel suo studio.
Pareti bianche e tende blu, dal balcone si vede un piccolo giardino, una palma che mitiga il sole.
Sulla libreria alcune targhe: quella del nono premio «Rocco Chinnici» al comitato Addiopizzo del 5 novembre del 2005 e quella dell’A.N.D.E., associazione donne elettrici, donata il 14 dicembre 2007 a Palermo con questa motivazione: «A Pina Grassi che nell’ambito della sua attività politica e sociale ha svolto con costanza e coraggio un ruolo determinante nella difficile lotta contro il racket e la criminalità organizzata.»
Pina comincia a parlarmi dei primi anni di Libero Grassi che sembrano un presagio di quello che gli accadrà fino alla fine: «Libero è nato a Catania il 19 luglio del 1924. Il 10 giugno era stato ucciso Giacomo Matteotti e lo zio anarchico, Peppino, chiese di mettere al bambino il nome di Libero per ricordare il sacrificio di Matteotti per la libertà e la democrazia. Con la sua famiglia rimase a Catania fino a otto anni, poi si trasferì a Palermo. Ma con Catania rimase sempre un legame. In inverno andavamo a sciare sull’Etna con i nostri figli e in estate trascorrevamo periodi di vacanza in campagna da nostri amici.
«Durante la guerra Libero con la sua famiglia, come altri sfollati, andò a Roma. Finita la guerra, insieme al fratello Pippo pensarono di creare in Lombardia una fabbrica di filati per cucire. Nel 1951 Libero e suo fratello tornarono a Palermo e fondarono la Mima (Manifattura italiana maglierie affini): producevano lingerie da donna. Negli anni Sessanta però mio marito e suo fratello si divisero, Libero fondò la Sigma, specializzata in pigiameria maschile, mentre Peppino si dedicò al commercio. La fabbrica con il tempo e l’inventiva di Libero si ingrandì, e quando fu ucciso aveva cento maestranze, quasi tutte donne e un fatturato di 7 miliardi di lire. La Sigma esportava all’estero, anche a New York e a Hong Kong.»
Nei primi anni di vita della Sigma non c’erano mai state richieste di pizzo. Su questo Pina Grassi fa un’ipotesi: «Fino alla fine degli anni Ottanta non avevamo mai ricevuto richieste di soldi. La sede fino ad allora si trovava nei vecchi locali delle ceramiche Florio in via Dante dove c’era anche la vetreria di Tommaso Buscetta (Il boss diventato il primo pentito eccellente, Nda) e forse la sua presenza, senza che lo volessimo, senza che avessimo alcun contatto, ci preservava. Poi la fabbrica si è ingrandita e si è trasferita in via Thaon di Revel, alle falde di Monte Pellegrino e lì la mafia si è materializzata.
«La prima volta arrivarono dei finti ispettori sanitari, ci dissero che volevano controllare le strutture. Invece erano mafiosi che volevano rendersi conto di quanto fosse florida l’azienda. Poi vennero altri uomini a chiedere sessanta milioni di lire. Mio marito naturalmente non glieli diede e denunciò la richiesta alla polizia. La conseguenza fu che rubarono le buste paga delle operaie, per sessanta milioni di lire. Anche quella volta Libero regolarmente andò in commissariato a denunciare. Mio marito diede anche le chiavi della fabbrica alla polizia per aprire e chiudere la Sigma; per tutelare i dipendenti, la fabbrica.
«Nel frattempo erano cominciate le telefonate di minacce sul posto di lavoro e a casa: “Stai attento a tuo figlio, all’azienda, alla famiglia.” Una volta, d’accordo con la polizia, mio marito finse di voler dare un acconto della tangente attraverso mio figlio Davide in un determinato luogo. Davide andò seguito dalla polizia ma nessuno si presentò all’appuntamento. Avevano mangiato la foglia.»
Pina Grassi ha sempre condiviso la scelta del marito. «Io sapevo tutto quello che stava succedendo e ho appoggiato da subito Libero. Noi ci siamo innamorati, sposati, per la condivisione di principi per noi irrinunciabili: la dignità, la libertà, la democrazia, la cultura. E poi c’è da dire che non pensavamo di rischiare la vita. Pensavamo a una ritorsione contro la fabbrica. Mio marito aveva messo in conto un incendio doloso alla Sigma, il furto dei camion, ma non la ritorsione fisica. Era più preoccupato chi ci stava intorno: un amico avvocato, per esempio, gli disse di non parcheggiare sotto casa, di guardarsi le spalle perché le minacce continuavano.
«Sequestrarono il nostro cane meticcio, Dick e dopo oltre un mese ce l’hanno fatto ritrovare pelle e ossa davanti al cancello della fabbrica. Loro speravano che morisse davanti ai nostri occhi, come segnale estremo. Invece noi il buon Dick siamo riusciti a salvarlo».
Lo sguardo di Pina si offusca, sta ricordando l’ultimo anno di vita di suo marito, la sua battaglia solitaria: «Nel corso del ’91 aveva cercato la collaborazione di altri industriali, ma per tutta risposta il presidente di Confindustria disse che non gli risultava che gli industriali pagassero il pizzo. A Libero capitò che persone conosciute da anni si voltassero dall’altra parte quando lo incontravano per strada. Avvenne anche che nella sede di un circolo borghese palermitano dei giornalisti intervistassero alcuni personaggi importanti per la società e per l’economia locale. I cronisti chiesero loro un commento su un omicidio, non ricordo quale. Ebbene, ebbero come risposta, nel 1990 che la mafia non esisteva, che era un invenzione dei giornalisti.»(segue)