Nel continente africano 5 milioni di ettari di terreno sono in mano alle compagnie straniere del settore biofuels. Un fenomeno che produce danni umani e ambientali devastanti. La denuncia viene dalla ong internazionale Friends of the Earth. “Vogliamo investimenti reali per produrre cibo, non combustibile per le automobili straniere”. Mariann Bassey, coordinatrice per la sezione nigeriana dell’organizzazione non governativa ha decisamente le idee chiare e, dati alla mano, non potrebbe essere altrimenti. Quello lanciato oggi dalla sua organizzazione, infatti, è un allarme inequivocabile che chiama in causa una vicenda torbida fatta di disgrazie africane e interessi miliardari. I protagonisti di sempre, insomma.
Nel corso degli ultimi anni, rivela il rapporto pubblicato oggi, le multinazionali straniere (tra cui le italiane Agroils, Aviam ed Eni) hanno acquisito terra africana per 5 milioni di ettari con l’obiettivo di convertirne le coltivazioni: dai prodotti alimentari ai biocarburanti. L’irresistibile business dei combustibili verdi avrebbe quindi generato una corsa alla terra senza precedenti, provocando danni incalcolabili all’ambiente e agli esseri umani. Privati dell’apporto alimentare di un area coltivabile grande quanto la Danimarca, milioni di africani sono così chiamati ad affrontare un futuro ancora più incerto fatto di carestie ataviche, impennate speculative dei prezzi e diminuzione delle risorse disponibili. Uno scenario da incubo assai peggiore, di fatto, di quanto appaia oggi visto che la ricerca, è bene ricordarlo, prende in considerazione appena 11 Paesi.
Quello condotto dalle corporation europee è un assalto alla terra silenzioso e riservato che sfrutta la diffusa carenza di garanzie che caratterizza i luoghi di conquista. Dati ufficiali praticamente assenti, consultazioni con le comunità locali decisamente scarse e inadeguate: più che a regolari acquisti, le operazioni condotte in Africa assomigliano a dei semi-espropri. Ad ammetterlo, spiegano da Friends of the Earth (Foe), è persino la Banca Mondiale, una che di questi argomenti sembra intendersene parecchio. Nel 2008 compilò una relazione interna ammettendo per la prima volta una correlazione tra lo sviluppo dei biofuels, la speculazione e la crisi alimentare. Ma alla fine preferì non divulgare i dati. Quando il rapporto finì nelle mani del quotidiano britannico Guardian, i vertici dell’organismo furono travolti dall’imbarazzo. Lo scandalo, tuttavia, non riuscì a scalfire l’agenda politica.
Per l’Unione europea quella dei biofuels è ormai una strada segnata. Bruxelles intende rispettare un piano noto da tempo che prevede entro il 2020 un utilizzo di carburanti verdi pari al 10% del combustibile totale impiegato nei trasporti. Un traguardo dall’impatto potenzialmente disastroso. «Le comunità locali affrontano la fame e una crescente insicurezza alimentare per permettere agli europei di riempire i serbatoi delle proprie automobili – spiega Adrian Bebb, responsabile delle campagne cibo e agricoltura di Friends of the Earth Europe – . Per questo l’Ue deve abbandonare al più presto questa politica per investire, al contrario, nel rispetto dell’ambiente e nella riduzione dell’energia impiegata».