È l’evento più atteso del Festival di Venezia. I giornali ne stanno già riempiendo le pagine. Forse, alla proiezione del 6 settembre ci sarà anche lui, il protagonista, accanto al suo interprete: Renato Vallanzasca e Kim Rossi Stuart insieme sul tappeto rosso per Gli angeli del male, il film di Michele Placido sul boss della Comasina e la sua banda.

Non so se augurarglielo, a Vallanzasca. Lui che ha sempre detestato il cliché del bandito nazionalpopolare (s’infuriava a sentirsi chiamare «il bel René») ci si ritroverebbe immerso fino al midollo: le rapine, gli omicidi (sette), le belle donne, le belle macchine, la bella vita (quella poca che ha vissuto fuori dal carcere). Un ritorno al passato illuminato dai flash di oggi, puntati impietosamente sull’ombra del gangster che fu: il re della mala che appena esce di galera (da aprile lavora in una cooperativa e torna ogni sera in carcere) si fa fregare la bicicletta.

Non vedo Vallanzasca da più di dieci anni, quando lo intervistai in occasione dell’uscita de Il fiore del male, la bella autobiografia scritta con Carlo Bonini e ora opportunamente ripubblicata da Marco Tropea editore. In seguito ci siamo «sentiti» (cioè scritti: lui stava in carceri di massima sicurezza: prima a Novara e poi a Opera) abbastanza spesso: interviste, memoriali, repliche alle proteste indignate di chi, dopo ogni suo intervento, voleva affibbiargli, oltre ai quattro ergastoli già comminati, anche la pena aggiuntiva del silenzio perpetuo.

Ma Vallanzasca, soprattutto, scriveva semplici lettere: gentili e fanciullesche, piene di buoni propositi e di punti esclamativi. Alle quali forse io non rispondevo adeguatamente (è difficile, per chi è fuori, comunicare con chi sta dentro) perché a un certo punto ha smesso di inviarle.

Guardo le copertine dei due libri dedicati alle sue gesta (oltre a Il fiore del male, anche L’ultima fuga, di Leonardo Coen per BC&Dalai) e penso a quanto Kim Rossi Stuart somigli al bandito da giovane e a quanto mi paresse velleitario, tanti anni fa, il desiderio di Vallanzasca di veder affidato proprio a lui, in un ipotetico film, il ruolo di protagonista. Invece aveva visto giusto. Ma penso, anche, che tanta esposizione mediatica non gli gioverà. La grazia, che ha chiesto due volte al Presidente della Repubblica, se possibile tarderà ancora di più ad arrivare. Se mai arriverà.

Pochi giorni fa è tornato libero Felice Maniero, ex boss della Mala del Brenta convenientemente pentito, dopo aver scontato 17 anni di carcere per droga, rapine e sette omicidi. Vallanzasca ha rubato, ha ammazzato, ha molto fatto soffrire. E non si è mai pentito: «Non sono così ipocrita da chiedere perdono a chi so che non potrebbe concedermelo. Non è dignitoso chiederlo ed è stupido pretenderlo». Ma ha già speso in galera 39 dei suoi sessant’anni di vita, più di qualunque altro delinquente o terrorista.

Ora qualcuno, molti, grideranno alla scandalo perché viene pubblicamente «celebrato» in un film. E qualche scellerato guarderà a lui come a un mito. Ma basterebbe ascoltare le sue parole per sapere quello che il film forse non dice, per capire che non esiste nessun mito ma solo un uomo sconfitto: «Ho deciso autonomamente di fare un certo tipo di vita, non ho mai accampato scuse, mai pensato di essere una vittima della società. Ho giocato la mia partita e l’ho persa. Io ero in galera ancora prima che l’uomo andasse sulla Luna! Se non è sconfitta questa…».

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