Ascanio, scusami se ti do del tu, visto che non ci conosciamo, ma quando ti ho visto entrare nella Sala Grande di Venezia, con la tua semplice camicia a maniche corte e con il viso che sembrava voler arrossire, un po’ spaurito, quasi a voler chiedere scusa di essere qui, tu che pure dovresti essere abituato a vedere davanti a te tanta gente, ti avrei voluto abbracciare e dirti che qui, in mezzo a noi che facciamo e guardiamo il cinema, ci devi stare, ci devono stare sempre di più soprattutto quelli come te, che hanno il coraggio di fare un film di parola, un film praticamente senza musica, un film che ci fa sentire tutti matti, noi che in platea ci sentiamo normali, sì, anche la signora accanto a me che sbuffa quando ci racconti delle uova che puzzano ancora di culo di gallina, perché c’è ancora chi sbuffa quando sente parlare di culo, anche se di gallina, tu che hai il coraggio di dirci che gli anni sessanta, i favolosi anni sessanta non sono stati poi così favolosi, anche perché seguiti dagli anni settanta, che forse sono stati anche peggio, tu che ci confondi con le tue parole veloci e taglienti, tu che chissà cosa avrà capito del tuo film Tarantino, il presidente della Giuria o il direttore del luogo in cui per novanta minuti ci hai rinchiusi tutti quanti, te compreso, che chissà se avrà saputo ascoltare le tue pause che dicono più delle parole, tu con il tuo narrare cinema fuori dagli schemi, tanto da sembrare a tratti claudicante, ma è solo un’apparenza, perché il tuo film non zoppica e anche quando sembra perdersi, sterza e ti recupera, ti conquista, ti ammalia, ti fa sentire scomoda la poltrona di velluto su cui sei seduto e nello stesso tempo ti rende felice di esserci seduto sopra, anche perché diciamocelo francamente è un lusso guardare un film, forse più di farlo, ma è necessario continuare a farlo, forse più di guardarlo, per non finire per sempre nel buio, perché Ascanio, per usare parole tue, il buio fa paura.
E si può morire per la paura del buio.