I professori precari in piazza davanti a Montecitorio sono una piccola parte del problema. Il disastro italiano non è la scuola dell’obbligo, ma l’università. E’ lì che si dovrebbe formare la classe dirigente, o almeno i professionisti più qualificati, da lì dovrebbe arrivare la ricerca che fa progredire l’industria, lì si dovrebbe coltivare quello che resta di un’idea di Paese. I problemi sono tantissimi, eppure in questi giorni si parla molto di una delle poche cose buone che sono state introdotte negli ultimi anni: i test di ingresso.
Ecco cosa dice un comunicato della Cgil sui test per l’ingresso nelle facoltà di medicina:
La domanda da farsi è se è ancora necessario il numero chiuso per l’accesso alla Facoltà di Medicina a fronte dei successivi abbandoni da parte degli studenti che superano i test e della carenza di medici che si prospetta nei prossimi anni nel Servizio Sanitario Nazionale con le uscite previste per pensionamento.
Tradotto: diamo a tutti una possibilità, visto che la selezione avviene strada facendo. Roba da matti. Visto che, anche con i test, ci sono tanti studenti somari, oltre a sovvenzionare i loro “studi” (perché le tasse universitarie non coprono mai i costi), dovremmo aiutare anche quelli che arrivano in fondo alla graduatoria dei test di ingresso, perché magari sono o più bravi di quelli da alta classifica. Con queste logiche si va solo verso il disastro.
Prendo qualche dato da un eccellente articolo di Massimo Livi Bacci e Gustavo De Santis sull’ultimo numero del Mulino, titolo: “Studenti, accelerate il passo!”. Nel 2005 la durata effettiva del percorso di studi universitari era in media 4,2 anni, nel 2008 era salita a 4,7. Gli studenti in ritardo di almeno tre anni sul piano di studi erano il 13 per cento nel 2005, il 26 per cento nel 2008.
In Italia ci sono 1,8 milioni di studenti iscritti all’università, 760 mila sono “fuori corso”. E’ evidente che qualcosa non funziona: i conti si fanno su una base di studenti che non corrisponde a quella che poi frequenta le aule, gli investimenti su strutture e persone si fanno in una situazione di perenne incertezza (in quanti verranno in classe? Bisogna cercare di recuperare i fuori corso o dedicare tutte le risorse a quei pochi che sono in orario?).
I test di ingresso sono, con tutti i limiti, uno dei pochi correttivi alle distorsioni percettive che in Italia ci sono verso l’università. Ma la polemica di questi giorni indica un limite del dibattito su questi temi, limite più frequente a sinistra ma condiviso anche a destra. Quando si parla di meritocrazia, si intende che i migliori devono avere di più. Ma anche che, relativamente, i peggiori devono avere meno.
Lo propongono anche Livi Bacci e De Santis: aboliamo le tasse, diamo un buono studio che permette di frequentare senza pagare, ma se non si superano un certo numero di esami, questo viene revocato. E si paga. L’attuazione è complicata, quindi mi permetto di proporre un piccolo correttivo dall’effetto immediato.
Aboliamo la barbara usanza tutta italiana di rifiutare i voti. Alla Bocconi ci provano da alucni anni: uno studia, il giorno dell’esame si presenta, e fa quel che può. Se fallisce gli verrà data (magari) un’altra chance. Ma l’idea del “ritenta sarai più fortunato” è contraria a ogni buon senso. A quel che so, in nessun altro Paese funziona così. Con questo piccolo correttivo si elimina il baratto “voto di laurea alto in cambio di qualche anno di studio in più”, si incentiva la produtivvità e si abbassa l’età di ingresso nel mercato del lavoro.
E soprattutto non costa niente.
Intanto godiamoci i test di ingresso, una delle rare occasioni in cui si ha l’impressione di essere valutati sulla base di criteri oggettivi.