Aiuto, mi si sono ristretti gli alberghi, si lamenta Salvatore Ligresti alle prese con i guai grossi della sua catena Atahotels. Perdite, debiti, clienti in calo anche per colpa della recessione. E allora che si fa? Per salvare il salvabile Ligresti si allea con Riccardo Fusi. Proprio lui, uno dei protagonisti della cricca degli appalti, il grande amico e sodale del coordinatore nazionale del Pdl Denis Verdini, lo stesso Fusi che è indagato nell’inchiesta giudiziaria fiorentina sugli appalti per la caserma dei marescialli. A dire il vero anche Ligresti a Firenze non se la passa granché bene. I magistrati lo vogliono mandare a processo per corruzione nella vicenda delle concessioni edilizie per l’area Castello. Una storiaccia che ha travolto anche gli ex assessori del capoluogo toscano Gianni Biagi e Graziano Cioni.
Poco male. In attesa di risolvere i loro problemi sul fronte penale, Ligresti e Fusi progettano le nozze. In sostanza Atahotels dovrebbe presto fondersi con Una, la catena alberghiera, tra le più importanti in Italia, di proprietà della famiglia Fusi. Il progetto, di cui si parlava da tempo negli ambienti finanziari, è stato confermato con un’intervista a un quotidiano economico da Ernesto Albanese, l’amministratore delegato della società di Ligresti.
“Potrebbe essere una buona operazione”, si sbilancia (ma neppure troppo) Albanese nell’intervista spiegando che le due catene sono complementari per “distribuzione geografica” e “mercati di riferimento”. Sarà. Ma le affinità elettive tra i promessi sposi non si fermano qui. E per scoprirlo basta sfogliare i bilanci delle due società. Ormai da un paio di anni Atahotels naviga a vista, costretta di volta in volta ad aggiornare (al ribasso) i piani di rilancio. Ma anche la società di Fusi, giusto l’anno scorso, è stata costretta a chiedere aiuto alle banche per evitare il naufragio.
Gli ultimi dati ufficiali disponibili segnalano che nel 2008 Una è andata in perdita per 23 milioni su 55 milioni di ricavi. L’accordo con gli istituti di credito, tra cui Popolare di Milano, Monte dei Paschi e Intesa ha dato un po’ di respiro alla catena alberghiera. Giusto il tempo di guardarsi attorno e mettere in cantiere il rilancio. Impresa difficile, anche perché la recessione globale continua ad avere un impatto pesantissimo sul business degli hotel. Come se non bastasse la famiglia Fusi, azionista anche dell’impresa di costruzioni Baldassini Tognozzi Pontello è stata investita in pieno dalla tempesta giudiziaria delle inchieste sulla cricca. Ad aprile Riccardo Fusi è stato tra l’altro costretto a dare le dimissioni dalla presidenza di Una. E così le nozze con Atahotels finiscono per assomigliare tanto a un’ultima spiaggia, un tentativo estremo di salvataggio studiato e sponsorizzato dalle banche creditrici.
E Ligresti? In mancanza di meglio, almeno per il momento, il costruttore di Paternò non può fare a meno di presentarsi al tavolo delle trattative. Il suo gruppo Premafin, che ha come principale attività la compagnia di assicurazioni Fondiaria, l’anno scorso ha perso oltre 400 milioni di euro. Ed entrambe le società, sia Premafin sia Fondiaria, sono ormai da mesi in ribasso costante in Borsa. D’altra parte Ligresti è una pedina fondamentale negli equilibri dell’alta finanza nazionale, a cominciare dal Corriere della sera e Mediobanca. E questa sua posizione certo aiuta a raccogliere consensi e appoggi tra le grandi banche creditrici, in prima fila Unicredit. Atahotels però resta una spina nel fianco, una zavorra che costa ogni anno perdite per decine di milioni. Nei primi sei mesi del 2010 il conto economico si è chiuso con un passivo di 18 milioni. All’orizzonte c’è l’alleanza con Fusi, ma in attesa che l’operazione vada in porto Ligresti è già corso ai ripari. A modo suo. E così, l’anno scorso, ha ceduto la compagnia di gestione alberghiera alla Fondiaria quotata in Borsa. Una parte delle perdite di Atahotels è stata così scaricata sui piccoli azionisti della compagnia di assicurazioni. Saranno loro a pagare il conto. In attesa, chissà quando, dell’arrivo Fusi, il salvatore con i bilanci in profondo rosso.
da Il Fatto Quotidiano del 5 settembre 2010