Salito dopo decenni a cavallo di uno scooter per il temporaneo prestito di mia figlia, questa estate pregustavo una delle emozioni della mia giovinezza: respirare l’aria fresca e profumata del mattino, arrampicandomi sulle due ruote tra i pini e i pitosfori della mia città di mare svuotata dai vacanzieri. “La mia città, dagli amori in salita”, scriveva il poeta Giorgio Caproni.
Ma, per restare sul poetico, “dove sono finite le brezze del tempo”?
Ormai – lo avverto con stupita disperazione – anche in questi giorni di sfollamento stagionale l’atmosfera resta impregnata dei residui degli idrocarburi: la scoperta che ai miei figli saranno precluse anche queste gioie minime della vita, come l’innocuo godimento di spalancare liberamente i propri polmoni. Così cresce in me la sensazione di un’immensa insensatezza suicida. Identica a quella che mi aveva procurato tornare in uno dei luoghi dello spirito che più amo al mondo – Firenze – e ritrovarlo avvolto nello smog. Insensatezza con cui conviviamo quotidianamente, ormai senza neppure accorgercene. Perché è diventata la cornice della civiltà in cui siamo immersi. Agli sgoccioli.
Infatti il mondo in cui siamo nati e cresciuti (tanto che troviamo enormi difficoltà a pensarne altri) è fondato sulla dissipazione consumistica dei carburanti fossili; l’energia imprigionata da epoche remote nella crosta del pianeta. Dunque, civiltà del petrolio. Quel liquido maleodorante che traina l’economia planetaria diventando lo stampo che dà forma primaria alle nostre società, ai nostri stili di vita. Ma che sta giungendo al capolinea per il proprio ineluttabile esaurimento. Poco importa se – come sostiene Jeremy Rifkin – il picco sarà raggiunto tra cinque anni o meno. Poco importa se le previsioni del Club di Roma sui “Limiti dello Sviluppo” dei primi anni ‘70 si sono rivelate allarmistiche. Il dato resta certo, indubitabile: viviamo in un sistema finito; a prescindere dal momento in cui si raschierà il fondo del barile (metaforico e non).
Il dramma – semmai – è che corriamo spensierati verso il punto di non ritorno, nella convinzione incosciente che un’alternativa salvifica cadrà dal cielo.
Ecco il punto: non riusciamo a immaginare uno scenario diverso da quello in cui si hanno a disposizione fonti energetiche abbondanti e a basso costo. Per questo ritorna in auge l’idea delle centrali nucleari, trascurando il piccolo particolare che anche l’uranio è materia prima rara, il cui esaurimento si posticipa solo di qualche decennio rispetto a quello petrolifero. Gli anti “petroliferi/nuclearisti” sciorinano il mantra delle energie alternative rinnovabili. Niente di pregiudiziale contro questa tesi, se non il fatto che per produrre energia pulita (e poi gestirla) non si può fare a meno di quella sporca e – comunque – la portata di queste nuove fonti non è in grado di supportare/sopportare l’utilizzo sfrenato che stiamo facendo.
Ecco il punto: si sta tragicamente sbagliando dirottando la questione verso i lidi tecnologici, quando risulta eminentemente politica: il come (ri)organizzare la società, passando dalla dissipazione privata alla produzione di beni pubblici.
Me ne dava conferma giorni addietro la lettura de il Fatto Quotidiano, con la notizia di un piccolo paese del viterbese – Corchiano – la cui amministrazione è impegnata e reimpostare i tempi di vita e i modi di consumo dei propri cittadini cogliendo il nocciolo della questione: non sono solo petrolio o uranio (o altri succedanei, altri prodotti sostitutivi) a essere giunti al capolinea. È – come si diceva – un’intera civiltà a trovarsi in quella dirittura d’arrivo. Del resto è neppure due secoli che abitiamo nel capitalismo chimico degli idrocarburi. Solo un amen nella plurimillenaria storia dell’umanità. Semmai il dramma è che non riusciamo a guardare oltre. Anche perché viviamo in una stagione in cui la politica come grande discorso pubblico sui destini collettivi appare estinta. Lei – sì – finita in riserva.
Il piccolo comune del Viterbese ci manda un segnale. Non credo che le grandi corporations, quelle che pretenderebbero di trivellare tutta l’Alaska o il fondo del mare, oppure vorrebbero mettere il cappello sull’economia “verde” (forse) prossima futura, entreranno mai in questa logica. E – come si diceva – questa è la stagione in cui l’Economico ha stravinto sul Politico. Inquinando persino l’aria che respiriamo.
È ipotizzabile una nuova stagione guidata politicamente che – magari – riesca a farci ancora respirare la brezza profumata che spira tra i pini marittimi e i pitosfori?
Altrimenti continuerà la corsa folle descritta dal profetico Caproni, nei suoi “versicoli quasi ecologici”: Non uccidete il mare/ la libellula, il vento./ Non soffocate il lamento/ (il canto) del lamantino/ il galagone, il pino:/ anche di questo è fatto/ l’uomo. E chi per profitto vile/ fulmina un pesce, un fiume/ non fatelo cavaliere/ del lavoro. L’amore/ finisce dove finisce l’erba/ e l’acqua muore, Dove/ sparendo la foresta/ e l’aria verde, chi resta/ sospira nel sempre più vasto/ mondo guasto; ”come/ potrebbe tornare a essere bella/ scomparso l’uomo, la terra.