Politica

L’otto settembre e il cerino a Napolitano

Questa è la storia di un cerino. Il cerino della crisi politica in corso che alla fine si è consumato del tutto e ora rischia di bruciare il Presidente della Repubblica.

Allo zolfo di questo cerino è stato dato fuoco una mattina all’ora di pranzo, a Montecitorio. Il 15 aprile scorso a tavola sono seduti Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi, è l’ultima volta che si vedono a quattr’occhi. Si sono concluse da poco le elezioni regionali e quel cerino appena acceso Fini lo mette in mano a Berlusconi: gli rimprovera di essere troppo schiacciato sulle posizioni della Lega e ribadisce i suoi distinguo più volte espressi. La minaccia del Presidente della Camera è di costituire gruppi autonomi in Parlamento.

Berlusconi non ci sta a tenerlo in mano per molto: il 22 aprile, alla direzione nazionale del Pdl che si riunisce per la prima volta, lo rimette in mano a Fini. “Se vuoi fare politica, dimettiti” lo attacca. “Che fai, mi cacci?” risponde il co-fondadatore da sotto il palco puntandogli il dito contro. Si ufficializza una minoranza nel partito, Generazione Italia che adotta subito una tattica da simil-guerriglia: niente rottura, “rimaniamo nella maggioranza” ribadiscono, ma la discussione è aperta senza pregiudizi su tutto, in particolare sui temi scomodi per il Pdl e sulle leggi ad personam che interessano al premier.

Il cerino, di fatto, torna in mano di Berlusconi: continua a bruciare e bruciare, e sembra poter durare ancora a lungo, quando il premier schiaccia sull’accelleratore e mette paglia sotto il fuoco. Il 29 luglio l’ufficio di presidenza del Pdl, riunito a Palazzo Grazioli, vota un documento in cui si accusa Fini di una costante “critica demolitoria alle decisioni prese dal partito” e questo non come “un legittimo dissenso” bensì come “uno stillicidio di distinguo o contrarietà nei confronti del programma di governo”; perciò le sue posizioni sono “assolutamente incompatibili con i principi ispiratori del Popolo della Libertà”. I deputati Bocchino, Granata e Briguglio, vengono deferiti ai “probiviri”.

Il cerino, non c’è dubbio, è ora in mano a Fini. Che il giorno dopo la cacciata dal Pdl tiene una conferenza stampa nella quale fonda gruppi parlamentari a Montecitorio e a Palazzo Madama. C’è una novità, però, che contribuisce ad alimentare la combustione: ai gruppi della neonata Futuro e Libertà aderiscono 33 deputati e oltre dieci senatori, quando basta per fare gruppi autonomi e soprattutto molti di più di quanto si aspettava Berlusconi tranquillizzato a riguardo dagli ex fedelissimi di Fini. Arrivano le ferie, il Parlamento chiude, la riapertura della Camera viene fissata in un giorno segnato in nero sul calendario nazionale: l’8 settembre.

E’ estate, fa caldo, ancora più caldo perché giornali vicini al governo sparano con il lanciafiamme. Ma agosto dura un attimo, un battito di ciglia. “Infami”: così Fini definisce quegli stessi giornali-lanciafiamme parlando a Mirabello solo due giorni fa. “Il Pdl è morto” aggiunge, e Futuro e Libertà non vi rientrerà perché “non si può rientrare in qualcosa che non c’è“. Il cerino, agli sgoccioli, torna in mano a Berlusconi. E siano alla cronaca, non più alla storia.

Sono concordi tutti:  quel cerino a fine corsa farà molto male a chi si troverà in ultimo a stringerlo tra indice e pollice. Berlusconi vuole addossare la colpa a Fini, e viceversa: in campagna elettorale è un argomento formidabile incolpare “il più grande presidente del consiglio degli ultimi 150 anni” di non aver saputo governare tanto da essere costretto a tornare alle urne dopo appena due anni; come è altrettanto formidabile, dalla parte opposta, accollare tutte le colpe del voto sulle spalle di un traditore (argomento perfetto, tralaltro, per un partito populista).

E così ieri notte, sei settembre, arriva il colpo di scena. Ormai all’angolo, con la Lega che preme per andare a votare convinta di fare il pieno di voti; e con il rischio concreto che con nuove elezioni l’alleanza Pdl+Lega perda la maggioranza in Senato; sembra proprio Berlusconi quello destinato a bruciarsi. Ma con una mossa imprevista ed imprevedibile, lui d’un tratto il cerino lo passa al presidente della Repubblica. “Abbiamo deciso di andare dal Presidente della Repubblica” ha dichiarato Bossi ieri uscendo dal vertice ad Arcore, “ma non per presentare le dimissioni del governo, ma per chiedere che Fini sia spostato da presidente della Camera”.

Così viene chiamato in ballo l’uomo che, ancora di più in una crisi politica, deve essere solo l’esecutore della Costituzione. Lo si chiama in ballo per chiedergli qualcosa che non è nei suoi poteri, che non può fare e che comunque non farebbe mai.

Il cerino ormai è bruciato davvero. E si comincia piuttosto ad avvelenare i pozzi. Domani è l’otto settembre.