Silvio Berlusconi stavolta è davvero solo. Il cerino che aveva passato a Gianfranco Fini gli è stato educatamente restituito. Più corto di prima. E dopo Mirabello il premier deve pure difendere la fiamma da Umberto Bossi, che ci soffia sopra invocando le urne. Tenere il fuoco in vita fino al Quirinale è la speranza ultima. Ma Giorgio Napolitano non si lascerà scottare le dita. Ieri sera la consueta cena del lunedì ad Arcore si è trasformata in un vertice pilotato dalla Lega. Chi ha visto i volti, ascoltato i resoconti racconta di un presidente del Consiglio teso e preoccupato. Un uomo che vorrebbe tornare indietro di due mesi, un uomo che non avrebbe voluto accendere quel cerino. Avrebbe la maggioranza anche per il voto di fiducia. Potrebbe concentrarsi sul processo breve, affidandosi al legittimo impedimento. Gestire l’alleanza con la Lega a colpi di federalismo. Andare in vacanza, tornare agli amati bagni di folla, aiutare Apicella a promuovere il nuovo cd “Con l’amore si può”, di cui ha scritto i testi, in uscita il 9 ottobre. E invece è costretto al silenzio nell’attesa del colpo di genio, uno dei suoi. Ma la fiamma si affievolisce. E il cerino è ancora nelle sue mani.
La volontà, annunciata ieri insieme a Umberto Bossi, di chiedere al Quirinale di spingere Gianfranco Fini a dimettersi è, secondo tutti gli osservatori politici, una strada non percorribile. Perché “dimissionare” il presidente della Camera non solo non rientra nei poteri del capo dello Stato, ma è un’eventualità sconosciuta alla Costituzione. Non è un caso dunque se il Colle alle 14 ha comunicato che “nessun incontro è stato richiesto”. Da Napolitano il governo può andare, ma dimissionario. Quindi Berlusconi deve prima passare dalla verifica parlamentare. E non è detto che Napolitano non lo rinvii nuovamente alle Camere, visto che è già accaduto con Romano Prodi nel 2007 caduto in aula sulle missioni all’estero. Certo è che Berlusconi direbbe addio alla presidenza del Consiglio.
La salita al Colle sarebbe evitabile se Gianfranco Fini si dimettesse spontaneamente. Ma il leader di Fli non ha alcuna intenzione di presentarle (lo sforzo di Mirabello andrebbe perduto, perché farlo?) e, inoltre, se si dovesse eleggere un nuovo presidente della Camera, il Pdl non avrebbe i numeri per nominare un uomo di fiducia. Così come non ci sono i numeri, al momento, per la fiducia ai fantomatici 5 punti. Per quanto Futuro e Libertà continui (con la voce di Benedetto della Vedova e di Italo Bocchino) a garantire il sostegno al governo. C’è il nodo Lega. Umberto Bossi si dice pronto a prendere in consegna il cerino (“Me lo mangio”, direbbe il celodurista leader in canotta forse aggiungendo anche dettagli sulla digestione). Con il cerino si accollerebbe quindi la responsabilità di far cadere l’esecutivo, ma solo con la garanzia delle urne entro novembre. Il ministro dell’Interno, Roberto Maroni (leghista), è già pronto “a votare anche in pochi giorni”. Urne, scrutatori, seggi: il Viminale c’è.
Il Carroccio sa bene che Berlusconi, attraverso tv e giornali, tenterebbe di far passare le camice verdi come affossatori dell’esecutivo. Ma sa anche che le cannonate di Arcore potrebbero andare a vuoto, visto che i “nemici” da colpire in un’eventuale campagna elettorale sarebbero tanti: il senatùr, “Il traditore Fini” e il “vecchio comunista Napolitano”. Senza contare Di Pietro, Pd, Udc. L’artiglieria, per quanto pesante, ha troppi bersagli su cui mirare. “Andare al voto subito”, ha ribadito a metà pomeriggio Bossi. Uno tra i suoi più fidati colonnelli spiega: “Le elezioni adesso ci consegnano almeno 60 nuovi deputati, senza considerare il risultato al centro-sud che sarà una sorpresa per tutti”. E il “capo Umberto” sulla possibilità di presentarsi anche in meridione ha sibilato: “Tutto può essere”. L’esercito verde sta lavorando alacremente per riunire le truppe.
Un’occasione così non ricapita più. Bossi è talmente deciso da aver rifiutato ieri ad Arcore anche la possibilità di un governo tecnico guidato dall’amico Giulio Tremonti. Ipotesi formulata e fortemente sostenuta nei mesi estivi dal leader del Carroccio e ormai superata. Anche perché in via Bellerio sanno benissimo quanto sia alto il rischio di ritrovarsi con un esecutivo tecnico guidato da Mario Draghi (tra i più accreditati) sostenuto dall’ala critica Pd, Udc, Fli e altri. Pdl e Lega potrebbero non avere i numeri per sostenere Tremonti. Senza contare la migrazione dal Popolo delle libertà ai gruppi parlamentari di Futuro e Libertà che si aprirà domani con la ripresa dei lavori alla Camera.
Ormai ciascuno pensa a se. Stretti intorno al Cavaliere sono rimasti i fedelissimi, i miracolati sulla strada di Arcore, i devoti, i sodali. Ma qualsiasi alternativa al tenere in vita il Governo avrà un risultato: l’estromissione di Berlusconi dal potere. E dallo scudo del legittimo impedimento. Chi perde di più, inutile sottolinearlo, è il Cavaliere. E da solo sta sicuramente cercando la via d’uscita.
Non è la prima volta. Berlusconi è sempre stato solo. Tanti amici fidati e consulenti. Ma ha deciso da Leviatano, con se stesso. Da solo si è inventato un partito, un polo, un universo in cui persino gli esperti naufraghi della prima repubblica si sono sentiti al sicuro. Protetti da “l’unto dal Signore”. Da solo ha rivoluzionato la politica italiana. Nel 1994, quando “scese in campo”, riscrisse il linguaggio dei Palazzi romani. A colpi di “mi consenta” ne ha poi stravolto abitudini e consuetudini. Con il “contratto con gli italiani” ha trasferito il dialogo con gli elettori dai luoghi storici (circoli, piazze, strade) alla tv. Nonostante le feste a villa Certosa e qualche schitarrata con Apicella si è conquistato non due righe ma almeno un capitolo sui libri di storia. Ad alleati e nemici ha dimostrato che è impossibile stargli dietro. Politicamente. Quanto detto la sera è già vecchio il mattino dopo. Con il predellino ha assestato il colpo finale al partitismo italico: o con me o contro di me. E così nel Pdl sono confluiti tutti gli attendenti del potere. Dai Gasparri ai La Russa. Dai Verdini ai Pisanu. Costretti in un bipolarismo (imperfetto) da sempre considerato innaturale per il belpaese. E’ durato poco, certo. Ma persino in questo è riuscito solo Berlusconi.
Anche l’attuale crisi potrebbe essere madre dell’ennesima rivoluzione (politica) berlusconiana. La fantasia al Cavaliere non è mai mancata. Per questo dal Pdl regna il silenzio. Si attende la voce di Arcore. I fedelissimi sperano nel colpo di genio, le truppe temono sia un colpetto d’ala. Chi non è troppo coinvolto nella corte del premier sta già abbandonando la nave. I telefonini dei capigruppo di Futuro e Libertà suonano ininterrottamente da lunedì mattina. Della Vedova non ammette né smentisce. Si limita a riconoscere che “ci sono persone interessate al progetto di Fini, vedremo domani”. Regione per regione i fedeli dei “colonnelli che hanno cambiato generale” (copyright Gianfranco Fini, Mirabello) stanno velocemente cercando una nuova casacca. Il nervosismo è diffuso. E si diffonde. A Palazzo Grazioli stamani si è aperto lo stato di crisi: Frattini, Bondi, La Russa, Alfano, Matteoli, Vito, Gianni Letta, Bonaiuti, Ghedini, Verdini, Gasparri, Cicchitto, Quagliarello. Tutti riuniti dal capo fino alle 16.25, poi cinque minuti di Consiglio dei Ministri, aperto e chiuso in quattro minuti senza il premier.
Intanto la Lega invoca (insistente e ripetitiva) il voto, il Quirinale attende la richiesta d’incontro. Fini parla al tg La7 delle 20. E Berlusconi è tentato di apparire anche lui in tv. Ma al momento è piuttosto indaffarato, tanto da posticipare a domenica l’intervento previsto domani alla festa di Atreju. Libero titola “Bossi sarà il killer”. La prima cartuccia è stata sparata.