La mancata solidarietà del presidente della Camera sulla vicenda D'Addario. Le campagne mediatiche contro il presidente della Camera, iniziate la scorsa estate. Le tiepide prese di distanza di Berlusconi. E il solco sempre più marcato tra i due co-fondatori, fino alla frattura
Ad aprire le danze furono le storie di minorenni ed escort. Sono proprio le Noemi e le D’Addario il vero spartiacque nei rapporti tra il premier e il presidente della Camera. Una svolta che ha poi segnato tutto l’ultimo anno e mezzo, fino al comizio di domenica a Mirabello. Le minacce degli house-organ, le prese di distanza di Silvio Berlusconi, il gelo di Gianfranco Fini. Era il 19 giugno 2009 quando il Cavaliere definì “spazzatura” le rivelazioni di Patrizia D’Addario, incassando il sostegno e il supporto di tutta la sua maggioranza. Con una sola eccezione: “C’è il rischio di minore fiducia dei cittadini verso la politica e le istituzioni, cioé il fondamento della democrazia”. Con queste parole Fini scelse di non salvare l’onore del Capo (“l’utilizzatore finale”, come disse l’onorevole avvocato Ghedini), invitandolo anzi a una riflessione da statista. E FareFuturo, la fondazione vicina all’ex leader di An, rincarò la dose, parlando di “modello Caligola” imperante nel governo italiano. La risposta, in quell’occasione, non arrivò dal premier. Il ventriloquo di Berlusconi, il 22 giugno, fu Giorgio Stracquadanio: “Fini si liberi dell’abbraccio mortale di Scalfari, anche per propria convenienza, prima di venire strangolato”.
Una settimana dopo, il presidente della Camera fece marcia indietro. Da Madrid disse: “Gli italiani giudicano il governo solo per quello che fa. Diffido di chi dà giudizi morali. Sono questioni che attengono la sfera personale”. Perché questa marcia indietro? Non c’è una vera spiegazione. Ma una coincidenza, sì. Il 25 giugno, Il Giornale (allora diretto da Mario Giordano) pubblicò in prima pagina la prima puntata di una serie di servizi sull’inchiesta romana del 1999 a proposito di un giro di squillo che si accompagnavano con alcuni imprenditori vicini a Massimo D’Alema. Un’inchiesta di cui si era già occupato l’Espresso nel 2001: il settimanale aveva citato il coinvolgimento di “un importante leader del centrodestra”. Un dettaglio che però non compare nell’inchiesta de Il Giornale. Chi era quel leader? E perché quella storia venne ripresa proprio in quei giorni? Il Cavaliere mise le mani avanti: “Mi tengo lontanissimo da cose del genere”.
Proprio il ruolo dei media di proprietà del premier finirà per logorare i rapporti tra i due. In effetti, la vera risposta di Berlusconi allo scandalo di Papi, agli attacchi dei giornali e soprattutto al fuoco amico di Fini, arriva nell’agosto 2009. Ed è una risposta mediatica. Anzi editoriale: il ritorno di Vittorio Feltri alla guida de Il Giornale. Con una missione precisa. Appena insediato, Feltri parte all’attacco del direttore di Avvenire Dino Boffo. Ottenute le sue dimissioni, si dedica a un lavoro ancora più sporco: far tacere il co-fondatore del Pdl, che nelle ultime settimane si era smarcato, con duri commenti sul caso Boffo e rasoiate contro le “derive populiste” del governo (con esplicito riferimento alla sudditanza dell’esecutivo verso la Lega). Il 7 settembre 2009 arriva il primo editoriale-siluro di Feltri contro il presidente della Camera, definito “compagno Fini”: “Fini, rientra nei ranghi. Torna a destra per recitare una parte in cui sei più credibile. Non rischierai più di essere ridicolo come lo sei stato negli ultimi tempi”. Immediata la presa di distanza di Silvio Berlusconi: “Come si può ben immaginare non ero a conoscenza dell’articolo, di cui non posso condividere i contenuti”. Un gioco delle tre carte che non si conclude con questo primo incidente.
Una settimana dopo, il 14 settembre 2009, il giornale della famiglia Berlusconi ci va ancora più pesante. Vittorio Feltri arriva a minacciare un sexy scandalo per la terza carica dello Stato. Ecco il passaggio chiave: “Delegare i magistrati a far giustizia politica è un rischio. Specialmente se le inchieste giudiziarie si basano sui teoremi. Perché oggi tocca al premier, domani potrebbe toccare al presidente della Camera. È sufficiente, per dire, ripescare un fascicolo del 2000 su faccende a luci rosse riguardanti personaggi di Alleanza Nazionale per montare uno scandalo. Meglio non svegliare il can che dorme”. Fini querela. Ma oltre alla minaccia, lo stesso editoriale contiene anche un dato politico che, letto un anno dopo, fa capire come la situazione negli ultimi 12 mesi si sia cristallizzata: “Fini – scrive Feltri – ha l’esigenza immediata di trovare una ricollocazione: o di qua o di là. Non gli è permesso tenere un piede nella maggioranza e uno nell’opposizione”.
La situazione, tra colpi bassi e toni smorzati, sembra avviarsi alla rottura. Invece passa solo una settimana e si arriva all’incontro del 21 settembre 2009, organizzato da Gianni Letta e Ignazio La Russa, per abbattere il muro di silenzio calato sui due co-fondatori del partito. Il faccia a faccia, almeno apparentemente, sembra segnare il disgelo, con la promessa di “maggiore collegialità nelle scelte”. Ma la frattura, anche in questo caso, non si ricompone. Passano 20 giorni e l’8 ottobre arriva la nuova bacchettata di Fini su un’entrata a gamba tesa di Berlusconi sulla Corte costituzionale (che ha appena bocciato il Lodo Alfano): “Il diritto di Berlusconi a governare non può far venir meno il suo preciso dovere costituzionale di rispettare la Corte e il capo dello Stato”. Pochi giorni e ricominciano anche gli attacchi su Il Giornale, le prese di distanza di Berlusconi dal “suo” direttore, e l’irritazione del presidente della Camera. Fino al 17 novembre, giorno in cui i due house-organ segnano una nuova accelerazione sul percorso di logoramento della maggioranza. Il Giornale per la prima volta invoca le dimissioni del presidente della Camera. Libero, invece, con il titolo “Silvio, chiudi il teatrino”, invita il premier a chiedere le elezioni politiche “per non farsi rosolare a fuoco lento dai presunti amici”. Anche questa volta, puntuale, arriva la presa di distanze del premier. Ma il sasso è stato lanciato.
Elezioni minacciate, brandite come arma. Poi improvvistamente allontanate con accordi e tregue armate. Questo sarà il ritornello di tutti i mesi a venire. Con picchi clamorosi (il fuorionda in cui Fini dice che “il premier confonde la leadership con la monarchia assoluta”, aggiungendo che “le rivelazioni di Spatuzza sono una bomba atomica”) e momenti di quiete: ad esempio quando, all’indomani dell’aggressione a Silvio Berlusconi in piazza Duomo, nel dicembre scorso, Italo Bocchino dichiara che “questo evento accorcerà molto le distanze tra i due leader, farà passare in secondo piano i dissidi e ridarà slancio all’unità interna al Pdl”. Una previsione del tutto sballata, come dimostrano i mesi successivi. All’inizio di marzo il disastro-liste del Pdl è motivo di nuovi dissidi, sempre più espliciti. “Ho fondato il Pdl e non me ne vado”, dice Fini. Il 15 marzo nasce Generazione Italia (la rete di circoli di Gianfranco Fini) e la freddezza del Cavaliere diventa ostilità. Passano le elezioni regionali e si arriva all’ipotesi di gruppi separati in Parlamento. “Se fai gruppi autonomi te ne vai”, sono le parole del premier all’ex leader di An durante un pranzo a Montecitorio. Fair play nella replica: “Il Pdl va rafforzato”. E’ l’ultimo atto della “guerra fredda”. Con la direzione del Pdl del 22 aprile in via della Conciliazione a Roma (l’ormai celebre “che fai, mi cacci” di Fini con dito puntato contro Berlusconi) lo scontro si fa aperto. L’estate porterà il deferimento degli eretici davanti ai probiviri del Pdl, la cacciata dei finiani, il nuovo gruppo di Futuro e libertà, la campagna de Il Giornale sulla cucina di Montecarlo. E il comizio di Mirabello. Così, l’ipotesi di nuovo governo o di elezioni è diventata ogni giorno più concreta, con Fini e Berlusconi passati da co-fondatori a quasi-avversari.