Molte sono state le mozioni dei collegi docenti – durante lo scorso anno scolastico – per esprimere parere negativo contro la “riforma Gelmini”. Ne ho viste davvero tante, tutte argomentate con coerenza e razionalità a dire NO ad un provvedimento non solo totalmente privo di qualsiasi consistenza culturale, ma anche lesivo di alcuni diritti fondamentali, come il diritto allo studio e il diritto al lavoro. E imposto alle famiglie che hanno iscritto i figli in I superiore senza che fosse diventato legge, non avendo compiuto l’iter regolare e non essendo stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale alla data stabilita di inizio e fine procedure di iscrizione.
È di questi giorni la notizia che a Francesco Mele, docente di Chimica dell’Istituto Tecnico Commerciale di Carpi – il Meucci – è stata comunicata la censura per comportamenti impropri dal dirigente scolastico regionale, Marcello Limina.
Mele sarebbe reo del fatto di non aver subito passivamente il respingimento da parte del preside della propria scuola della mozione dei docenti e di aver chiesto un’ispezione sull’operato del preside stesso rispetto alla violazione delle competenze del collegio. In seguito alla notifica di censura, Mele ha fatto ricorso al giudice del lavoro e verrà sostenuto dalla Cgil, che ha garantito analogo sostegno a tutti gli insegnanti che dovessero trovarsi in analoghe situazioni.
Limina non è nuovo a prodezze di questo genere. In maggio aveva sollevato un vero casus belli raccomandando, in una nota ai dirigenti scolastici: «Attenti a parlare con i giornalisti e a non far circolare all’interno della scuola o distribuire alle famiglie documenti nei quali si esprimono posizioni critiche». Luogotenente di Gelmini, la quale accorre immediatamente in suo soccorso in occasione delle numerose esternazioni e delle consuete, ovvie reazioni che esse scatenano, Limina ha una particolare tenacia e un accanimento tutto suo nel tentare di attaccare la libertà di insegnamento e le prerogative degli organi collegiali nella scuola nelle sue incessanti testimonianze di fedeltà al “capo”. Nel 2009 sostenne che «i presidi non devono criticare la politica del ministero», motivando la perentoria affermazione con la «Questione di lealtà nei confronti del datore di lavoro». Tradotta, la risposta significa che questo signore stigmatizza chi ha l’impudenza di non identificare lo stato con il partito di governo. Mi chiedo se – nell’insegnamento di Cittadinanza e Costituzione, la materia fantasma tanto evocata da Gelmini e mai attivata (dal momento che in molti segmenti delle superiori le ore di storia, addirittura, si riducono) – sia previsto implicitamente una simile caratteristica per comporre il profilo del cittadino italiano. Che certamente vivrebbe meglio, come molti fanno, coccolato e tranquillizzato dalla demagogia e dalla “sicurezza” che quelli che ci governano ci vogliono far credere di aver creato. Ma rinuncerebbe definitivamente all’esercizio critico della propria libertà di pensiero per diventare suddito di una cultura dispotica.