Per quanto pericolosamente sregolato, smaccatamente speculativo e sostanzialmente fuori controllo, il mercato mondiale degli strumenti finanziari derivati resta la principale risorsa di crescita delle banche coinvolte nel processo di ripresa. E’ l’inquietante conclusione dell’ultimo rapporto della banca d’affari statunitense JP Morgan, uno dei colossi del settore. In un mercato ancora scosso dalla crisi, hanno sottolineato gli analisti, le operazioni più redditizie saranno proprio quelle connesse ai prodotti strutturati per la gioia di pochi grandi operatori e la preoccupazione di risparmiatori e regolatori.
Nonostante le feroci critiche per il loro potenziale distruttivo (speculazioni al rialzo sulle materie prime, operazioni ribassiste su valute, obbligazioni sovrane o titoli azionari delle imprese), in altre parole, i derivati saranno al centro della grande ripresa dell’attività bancaria del prossimo biennio. Secondo JP Morgan i vertiginosi tassi di crescita del passato resteranno un ricordo ma le prospettive di espansione non mancano affatto. I ricavi previsti nel mercato dei derivati sui titoli di borsa, precisano i curatori del rapporto, continueranno a diminuire nel corso del 2010 per andare successivamente incontro a un’inversione di tendenza: +11% nel 2011, +7% nell’anno successivo. I protagonisti dell’investment banking, insomma, saranno sempre loro.
A godere dei frutti di questa ripresa, però, saranno in pochi. Una conseguenza inevitabile, quest’ultima, di quel processo di ristrutturazione regolamentare tuttora in atto e con il quale si vorrebbe scongiurare una futura ricaduta dei mercati. I nuovi requisiti di capitalizzazione richiesti dalla Banca dei Regolamenti Internazionali (Bank of International Settlements – Bis) costringeranno la maggior parte degli operatori ad aumentare i propri depositi riducendo la quota di capitale investito. In questo generale processo di riduzione dei ricavi a confermarsi maggiormente competitivi sui mercati finanziari saranno gli istituti più solidi, più grandi e meglio capitalizzati. I soliti noti, insomma. Per colossi come Goldman Sachs, Morgan Stanley, UBS e Credit Suisse (ma anche Barclays, SocGen e Bnp) si preannunciano affari d’oro.
In assenza di un’autentica riforma capace di insistere non solo sui requisiti patrimoniali ma anche, se non soprattutto, sulla regolamentazione dei mercati più complessi, i derivati sono destinati a confermare tutto il loro potenziale distruttivo. Le storie di default e guai finanziari in genere non mancano di certo. Il passato recente ne è pieno e il presente continua a estrarre dal cilindro nuove disgrazie. L’ultima in ordine di tempo, almeno per l’Italia, viene dalle piccole e medie imprese lombarde, protagoniste del più recente tumulto finanziario del settore. Disinvolte acquirenti di derivati swap che avrebbero dovuto proteggerle dalle oscillazioni dei tassi di interesse tra il 2000 e il 2005, le imprese lombarde si troverebbero ora esposte ai derivati per almeno 20 miliardi di euro e sarebbero costrette a fronteggiare una perdita potenziale di 800 milioni.
La denuncia, comparsa in questi giorni sulle pagine de Il Sole 24 Ore, parla già di 20 cause intentate dagli imprenditori in perdita contro le banche (con Unicredit protagonista in oltre la metà dei casi). Al centro della contesa la solita, immancabile, asimmetria informativa che vede gli istituti in possesso di dati completi e attendibili e i clienti nel ruolo di scommettitori poco informati e, in definitiva, sostanzialmente non competenti. Un fenomeno ampiamente noto che, dopo aver aperto uno squarcio nei conti degli enti locali, rischia ora di produrre effetti devastanti nei conti delle imprese lombarde nonché nella rete delle microaziende venete e piemontesi protagoniste anch’esse, ha sottolineato ancora Il Sole, di incauti acquisti di strumenti swap nella prima metà del decennio.