Bruciante, commovente, a tratti agghiacciante sfogo del colonnello La Russa sull’ammutinamento del solito Giangiuda Fini e dei suoi fedelissimi. (Video)
La location del toccante monologo è la festa di Atreju della Giovane Italia: è proprio qui che il nostro vate all’olio di ricino urla “urbi et orbi” i propri autorevoli pensieri sullo scisma Pdl-Fli, tra un “digggiamo” e qualche commossa rimembranza.
L’appassionante soliloquio parte con un vibrante “mea culpa” recitato con uno sguardo ineditamente ispiratore (e con la consueta bocca spalancata a caccia di mosche): “Il distacco di Fini da Berlusconi è un vero fallimento della mia politica. Io ho provato in tutti i modi negli ultimi anni a essere l’elastico, il punto di raccordo tra Fini e Berlusconi, dalla parte di Fini. Io vivo questo momento come un mio fallimento personale. Non so se ne ho la colpa, ma lo vivo come fallimento. Cerco di riscattarlo, ma cerco di essere coerente con le scelte del ’76, quando i miei amici andarono via, ma io rimasi quasi solo in patria all’inizio, all’interno del Msi.”
Il garbo umanitario, vagamente new-age, del nostro tocca il parossismo della commozione, in questa parentesi lacrimevole e profonda: “E mi sono astenuto da ogni commento su una storia dolorosa, anche se qualcuno ha cercato di tirarmici dentro…ero coordinatore di An, appunto! Perchè nessuno me ne parlò mai? Una storia di eredità e di case, che è estranea alla concezione del nostro modo di fare politica e al nostro modo di comportarci con ciò che noi consideravamo “sacro”. Mi sono tenuto fuori! E immaginate la sofferenza in quella che Fini qualche giorno fa ha detto che era l’unica stoccata polemica: “Gli ex colonnelli di AN hanno solo cambiato generale e sono pronti a cambiarlo ancora”. Mi ha fatto soffrire questa cosa, perchè, per quanto mi riguarda, il nostro generale si chiamava Fini. (…) E’ lui che ci ha portato da Berlusconi. Non siamo noi ad aver cambiato generale, perchè ce l’ha indicato lui e noi l’abbiamo condiviso. Ma semmai è lui il nostro generale, il mio generale, che ha cambiato bandiera.”
E a questo punto siamo al picco negativo della curva gaussiana caramellata recitata da Ignazio: le pugnaci rivendicazioni e i fumiganti rinfacciamenti. “Fini aveva già tentato di cambiarla (ndr: la bandiera) altre volte e quante volte ho fatto da collante sul voto degli immigrati, sul male assoluto, sull’identità nazionale, su mille altre cose! Quante volte a giustificare! Quante volte a dire che aveva ragione! Che non avevamo capito bene! Che bisognava capire il significato recondito!”
L’ardente fiamma di rabbia e di strazio si placa con un tenerissimo attestato di amicizia: “Forse sono l’ultimo illuso, ma oggi spero che ci possa essere domani un nuovo abbraccio, una nuova unificazione tra Fini e Berlusconi! Applausi deboli? Non importa! Io ci spero lo stesso! (…) Fini non è di sinistra e non pensa di andare a sinistra, ma vi rendete conto che la sinistra impazzisce per Fini? Ci sarà pure una ragione. Non c’è bisogno di scomodare Guareschi e gli ultimi idioti, perchè Fini idiota non è ma utile alla sinistra in questo momento è certamente”.
Ma il punto di fusione si innalza nuovamente, quando il colonnello, ricordando le parole di Schifani peroranti le non dimissioni di Fini, fomenta una nuova gazzarra: “L’unico dubbio che ho è che lui giustifica il fatto di essere capo del partito fuori dall’aula (“quando non presiedo, non ho obblighi di nessun genere, posso svolgere azione politica”)…e vabbè, potrà essere anche un nuovo modo di interpretare la presidenza della Camera. Lo inaugura Fini in questo modo. Ma il mio dubbio è: ma se fuori dall’aula lui si è sempre sentito libero, perchè a Roma, dopo aver imposto la candidatura della Polverini, ha deciso di non partecipare a una sola riunione a sostegno del PDL e della Polverini?”.
E siamo giunti all’epilogo dello sfogo del nostro abile tribuno: conclusione di pura poesia, che illumina la notte della destra italiota con una luce bianca, lirica, ultraterrena e che carezza soaevemente l’immaginario naturalistico dei lupetti pidiellini immersi in religioso silenzio: “C’è un grande fiume che corre e che scorre verso un approdo che noi immaginiamo essere un’Italia migliore, più moderna, più europea, più improntata a quei valori per i quali abbiamo deciso di scendere in campo. C’è un grande fiume. Questo fiume oggi scorre nel letto che si chiama Pdl. Non volerlo capire significa indebolire. Questa massa di acqua che deve travolgere il vecchio, lo “standddio”, il corrotto e deve portarci nel mantenimento dei valori e ad analizzare un po’ di più quell’immagine della nostra patria, della nostra Italia, senza la quale oggi saremmo magari in giro con la fidanzata e non qui a parlare di cose importanti”.
Sì. Un fiume carsico di retorica stucchevole e di bugie a cottimo, che dallo scorrere nel lettone putiniano di Silvio sarà destinato a prosciugarsi implacabilmente.