Le stanno dando la caccia in ogni angolo del pianeta. L’hanno cercata in Iraq, in Afghanistan, e ora cercano di stanarla tra Pakistan, Somalia e Yemen. Ma gli Stati Uniti non hanno ancora imparato ad attaccare al Qaeda nel luogo più insidioso dove si nasconde: sul suolo americano. Ed è un errore che – unito a una falsa sensazione di sicurezza che pervade il mondo occidentale – potrebbe costare carissimo. Perché la minaccia di attacchi terroristi, a nove anni da quell’11 settembre 2001 che fece 2.965 morti tra New York, Washington e la Pennsylvania, non è diminuita: ha solo cambiato faccia. E gli Stati Uniti si stanno dimostrando lenti nel riconoscerla, e nel farle fronte. A lanciare l’allarme è il rapporto stilato dal centro studi Bipartisan Policy Center. Che indica come la “nuova” al Qaeda abbia sempre più spesso passaporto americano, perché negli Stati Uniti ha ormai stabilito una “infrastruttura embrionale di reclutamento, radicalizzazione e coordinamento operativo di terroristi”. E come il tallone d’Achille americano sia rappresentato dall’attuale assenza di strategia per contrastare i terroristi “born in the U.S.A.”, che si spostano – quasi “invisibili” – in aree come il Corno d’Africa o lo Yemen.
“I sondaggi indicano che gli americani si stanno disinteressando alle minacce terroristiche. Ma questo rapporto spiega che farebbero bene a non farlo”, dice al Washington Post Lee Hamilton, ex vicedirettore della Commissione sull’11 settembre. In altre parole, ci risiamo. Se gli attacchi dell’11 settembre 2001 furono resi possibili dalla costante sottovalutazione delle parole e dei piani dei terroristi islamici – dalle segnalazioni del 1998, in era Clinton, fino a quella del 6 agosto 2001, poco più di un mese prima della strage, giunta nelle mani del presidente George W. Bush -, l’errore si sta ripetendo.
Basta guardare quanto accaduto nel corso dell’anno passato. Un osservatore distratto potrebbe pensare che si sia trattato di un periodo tranquillo. Nessun assalto paragonabile agli attacchi alle Torri Gemelle, a Londra o a Madrid. Eppure basta guardare un po’ più in profondità per ricordare che nel solo territorio statunitense ci sono stati tre fatti gravissimi. A novembre il maggiore dell’esercito Usa Nidal Malik Hasan ha ucciso 13 colleghi nella base di Fort Hood, in Texas. A indottrinarlo era stato il religioso Anwar al-Awlaki, cresciuto nel New Mexico. Il giorno di Natale il giovane nigeriano Umar Farouk Abdulmutallab non riuscì a far detonare l’ordigno che aveva con sé sul volo Amsterdam-Detroit. A maggio Faisal Shahzad, americano naturalizzato, lasciò un’auto imbottita di esplosivo a Times Square. Di nuovo Manhattan, di nuovo New York. Solo un anno prima, nel 2008, i terroristi attaccarono Mumbai, in India, facendo 160 morti. A indicare loro gli obiettivi era stato David Headley. Cittadino di Chicago.
La minaccia è cambiata. Ora ha un volto che sembra familiare: difficile riconoscerla. Specie se – come segnala ancora il rapporto – non c’è alcuna agenzia federale che abbia il preciso compito di monitorare e fermare la radicalizzazione e il reclutamento di americani nelle fila di organizzazioni terroristiche. Esatto: nessuna delle 1.271 agenzie del governo e delle 1.931 società private che lavorano su programmi di antiterrorismo, sicurezza nazionale o intelligence lavora specificamente su questo punto. La Casa Bianca ha inserito solo quest’anno il “terrorismo “locale” tra i capitoli della strategia di sicurezza nazionale. Al Qaeda è snella, sparpagliata per il mondo e rapida. La macchina della sicurezza americana è immensa, ma inesorabilmente lenta. E non c’è nulla che gli Stati Uniti neceessitino di più, in questo momento, della rapidità strategica. Il motivo è semplice: i soldi, se non sono finiti, iniziano a essere molti meno. Certo, il budget per la difesa americana è sempre immenso: 700 miliardi di dollari l’anno, praticamente quanto quello di tutti gli altri Paesi del mondo messi insieme. Ma i conti iniziano a non tornare più.
Rispetto al 1970 – in piena guerra fredda – la spesa Usa per la difesa è aumentata del 40%, mentre il numero di navi da guerra e aerei da combattimenti è calato del 60%. Il costo di un F-22 Raptor, ad esempio, è esorbitante: 160milioni l’uno. I bombardieri B-2, quelli usati a Tora Bora, costano 2 miliardi di dollari l’uno. Ma per poter (anche controvoglia) mantenere la possibilità di compiere azioni di “polizia globale”, e di vincere le guerre in cui al Qaeda ha attirato gli Usa – come l’Afghanistan – o in cui gli Usa si sono infilati senza motivi legati ai terroristi islamici – come l’Iraq –, le armi servono. E servono sempre più sofisticate.
Certo, le truppe da combattimento Usa hanno lasciato l’Iraq. Ma restano sul campo 50mila militari. Hanno compiti di “addestramento”: ma si trovano in un Paese che l’Economist definisce “ancora sotto assedio”. A luglio i morti sono stati 500; gruppi legati ad al Qaeda – inesistenti, prima dell’inizio della guerra – stanno tornando all’opera; poliziotti vengono uccisi ogni giorno; e il lavoro dell’intelligence è di bassa qualità. L’Afghanistan è un pozzo senza fondo, dal punto di vista dei costi – umani e finanziari – per gli Usa, che sono intanto alle prese con una disoccupazione al 10% e un debito pubblico gigantesco (oltre 13mila miliardi di dollari). Il tutto perché la missione originaria della Nato nel Paese – sconfiggere al Qaeda e prevenirne il ritorno – s’è trasformata in una strategia enormemente più ardua e costosa: lo sviluppo e la modernizzazione dell’Afghanistan. Proprio mentre la vera minaccia per i cittadini americani non sta più lì, ma sul suolo statunitense.
Ed è sul loro territorio che gli Usa faticano a tenere testa ai rischi. Non si sa quanti islamici con passaporto americano potranno scivolare in derive estremistiche dopo l’eco avuta dall’assurdo progetto del pastore protestante Terry Jones di dare fuoco a copie del Corano. O dopo aver osservato le reazioni alla proposta di costruire una moschea ad alcuni isolati da Ground Zero. Quel che si sa è che non c’è, ad oggi, alcuna agenzia federale tenuta a fare esattamente questo tipo di lavoro. E che gli errori che portarono all’11 settembre, nove anni dopo, non sono ancora stati del tutto corretti.